di Letizia Lupino

PISTOIA. È un biglietto che sventola con una certa sollecitudine quello che mi accoglie al Funaro di Pistoia. Sono arrivata tardi, sì, quantomeno ho spaccato il minuto. Con ferma gentilezza vengo invitata ad entrare svelta in sala con un altro biglietto in mano, lo guardo senza attenzione, mi siedo; lo riguardo: Every brilliant thing, 999.997 l’alfabeto. È così che mi rendo conto che fino a quel momento il mio sguardo non si era fermato oltre la punta del mio naso. Alzo la testa e mi accorgo che la sala è gremita, le sedie mangiano parte del palco non compromettendo in alcun modo la poca scenografia presente: un tavolo, una grossa scatola e un panchetto. Il pubblico fremente nella sua compostezza tiene in mano il solito biglietto che ho io, sbircio a destra e a manca: sì, ce l’hanno tutti. È una morbida partecipazione a quello che sarà. Il protagonista-narratore è già in scena e aggirandosi per lo spazio ci guarda come se il focus fossimo noi. Le luci rimangono accese, nessuno stacco, nessun avvertimento e lui comincia a parlare. Filippo Nigro muove i primi passi lasciandoci attendere all’uscita di scuola, lasciandoci immaginare di essere tutti quanti bambini di sette anni alle prese con l’evento che segnerà, inevitabilmente, la vita di tutti noi per 90 minuti. È un lungo racconto-incontro che scivola fra le volute di una vita intera.

Ma non è un monologo, è un dialogo che rende il pubblico parte attiva nel dipanarsi della storia, la storia di un bimbo che cresce attraverso la depressione di sua madre, dal primo tentativo di suicidio all’ultimo, quello fatale. È un racconto di una quotidianità spiazzante, di una blanda ferocia che non sgomita mai, ma è sempre presente, di un senso di colpa che si fa reazione nel volerlo mettere in un angolo, nel volerlo vincere. Filippo, ormai compagno di banco, è fluido e senza imbarazzo, nel raccontarsi, nell’ingenuità dell’infanzia, di voler essere il salvatore di sua madre… e non che qualcuno gliel’abbia chiesto, gravandolo di una responsabilità troppo grande della quale farsi carico. Ma alla fine è la parabola di tutti noi, quelli che sono lì, ma anche quelli che non ci sono. È il bimbo che veste i panni dell’eroe combattendo con quello che ha: l’innocenza che profuma perennemente di una soleggiata primavera infantile. Ed è dunque sguainando la lama brillante della leggerezza che cercherà di strappare la madre-principessa dal drago della depressione. E lo fa con il solo strumento che possiede: lo sguardo ottimistico del suo essere fanciullo. Quale miglior modo, dunque, se non scrivere la lista delle cose per cui vale la pena vivere? Ed è da lì che si parte, dai primi dieci punti scritti di getto, nella sala d’attesa di un asettico ospedale, fino ad arrivare ad un milione di motivi per vivere! È dolcezza, imbarazzo, paura, amore, coraggio, ostinazione, rabbia. È l’indecisione, lo dice il protagonista stesso lotti, scappi o resti immobile. È la caparbietà del coraggioso candore di una risata strappata che tutto trascende: il dolore, l’orrore della certezza, il male; che farà da filo conduttore fino alla fine della storia-specchio in cui il protagonista si renderà finalmente conto di non essere rimasto immobile. Filippo Nigro e Fabrizio Arcuri hanno creato uno spettacolo in cui non si può non sentirsi emotivamente riconosciuti, che non può non piacere.
Adesso le luci posso spegnersi. Buio. Applausi.

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