FIRENZE. Il dolore, stavolta, si affievolisce un po’; non è la solita Emma Dante, quella di Carnezzeria, Vita mia, mPalermu, tanto per intenderci, o quella, avvicinandoci al contemporaneo, Le sorelle Macaluso, Scortecata, o Misericordia. Con Pupo di Zucchero, con due tutti esauriti al Teatro di Rifredi, la regista siciliana si allontana qualche centimetro dal dolore genuino, quello che strappa lembi di stomaco e consegna al nichilismo e alla riflessione alcune pagine riservate a gli ultimi. Però resta lì, attorno alla poesia, alla pittura, alle coreografie umane, alla melodia, alle rivisitazioni del sacro e del profano, con al centro dell’attenzione ancora una volta il camaleontico Carmine Maringola, l’ultimo sopravvissuto di una dinastia familiare ormai consegnata alla morte, e alla sua memoria, non contemplata all’Anagrafe, figuriamoci dalla storia. La scena è quella di sempre, con poco o nulla sul palco. Ma i ricordi prendono vita e ci trascinano indietro nel tempo, attorno alla lenta e irrisolta lievitazione del pupo di zuccaro, inderogabile rituale culinario della festa dei morti, quella del 2 novembre, quando nella modestissima casa vivevano tutti insieme: il figlio, ormai invecchiato, tremulo e deforme, con la madre francese, il padre marinaio sempre lontano e risucchiato dai flutti, Rosa, Primula e Viola, le tre sorelle in attesa di matrimonio, zia Rita e zio Antonio sistematicamente avvinghiati dal sesso e dalla violenza, Pedro, lo spagnolo innamoratissimo di Viola e Pasqualino, il figlio di colore adottato, per pietà, dalla mamma.
Sono tutti morti, ma sono ancora così presenti nella memoria, scialba e così poco affollata dell’unico parente ancora vivo, che decidono, per una festa troppo importante, di risorgere e tornare a far baldoria nella casa che fu il loro mondo, equidistante dalla ricchezza e dalla solitudine, un microcosmo alimentato dalle loro piccole grandi frustrazioni, da sogni irrealizzati e irrealizzabili, da amori carnali, indissolubili. L’attesa, messianica, che la farina lieviti e si possa così adornare per trasformarla nel pupo di zuccaro viene riempita dalla gioia antica, ma indimenticata, di quei giorni felici, con la famiglia, allargata a dismisura, al gran completo, con ognuno dei componenti armonicamente indaffarato nelle proprie facezie, una moltitudine di solisti in un’affiatatissima orchestra. Lo spunto è antico e a Emma Dante, che lo rivisita e rilegge catapultandolo cinque secoli dopo, lo consegna Giambattista Basile, con le sue novelle boccaccesche Lo cunto de li cunti. Il riadattamento è maestoso, oscillando tra Caravaggio e John Landis, tra Giove, Nettuno e Plutone e Thriller, senza perdere di vista, un solo istante, la magnifica tragedia greca, dell’amore, degli eroi e del non ritorno. Stavolta, scendendo nei dettagli emotivi, a fine rappresentazione non abbiamo pianto, come ci è successo, senza soluzione di continuità, in altre circostanze della produzione Emma Dante, ma ci è rimasto, appiccicato sulla pelle, quel senso di vuoto e tenera dolcezza che ci ha accompagnato, minaccioso, fino al rientro a casa. Perché siamo rimasti lì, con tutti loro (Sandro Maria Campagna, Martina Caracappa, Federica Greco, Giuseppe Lino, Valter Sarzi Sartori, Maria Sgro, Stephanie Taillandier, Nancy Trabona, Tiebeu Marc-Henry e Brissy Ghadout), incartapecoriti dal tempo e dalla memoria, manichini appesi ai ganci del lungo attaccapanni orizzontale, che congiungendosi ha creato, nel mezzo, la croce di cristo, del suo supplizio, sfoderato demagogicamente a ogni piè sospinto, ma vissuto con coerenza e partecipazione solo da Carmine Maringola, quel vecchio ‘nzenziglio e spetacchioso sopravvissuto, piegato dal dolore e che chiede pietà e misericordia dal basso di un improvvisato inginocchiatoio.