PRATO. La risposta alla deriva, al nichilismo, a questa corsa supersonica verso il nulla, forse, è molto più semplice di quello che si creda, o che ci convenga credere, quasi banale. Perché la Rivoluzione – ed è quello di cui abbiamo indistintamente bisogno tutti – ha una formula alla portata di chiunque, di tutti quelli che decidono, scientemente, di fare qualche passo indietro e fermarsi: a guardare, ad ascoltare e a pensare. Non è di un incontro insurrezionalista che vi stiamo parlando, o forse molto peggio, ma del nuovo saggio poetico della Compagnia Scimone/Sframeli, che ha debuttato al Fabbricone di Prato (si replica fino a domenica 11 dicembre) con il loro Fratellina (prodotto dal Metastasio, in prima nazionale), una preghiera asessuata che potrebbe salvarci, forse, prima che il vortice del nulla risucchi tutti e tutto. Due letti a castello, che sono postazioni di prigionia, gabbie, dai quali nessuno degli occupanti scenderà mai, se non per rifugiarsi, epilogo di speranza, nell’atollo della rinascita, separati dalla platea e dal mondo da delle veneziane, che vengono riavvolte al suono della sveglia, dopo un lungo ticchettio al buio che precede l’inizio della rappresentazione. Lo scandire del tempo è il sole e la luna che si susseguono l’uno all’altra e uno specchio, calato dall’alto, è la decisione che scatena l’incontrovertibile consapevolezza del totale abbrutimento umano, al quale occorre dare una risposta vera, efficace, dolorosa.

Nic (Spiro Scimone) e Nac (Francesco Sframeli), rispettivamente scrittore e regista, hanno abbandonato la scena esistenziale, decidendo di dare adito al sogno premonitore, quello di diventare poveracci davvero, portandosi dietro lo stretto indispensabile, compreso il portafogli, rigorosamente vuoto, rifugiandosi su un’isola deserta, o meglio, in un posto dimenticato da tutti. Tutti tutti no, però. Perché presa la consapevolezza che proprio da lì, entrambi, possano ricominciare a pensare di vivere, appaiono due fratelli, Gianluca Cesale e Giulia Weber. Sono i sopravvissuti all’implosione atomico/capitalista, lui porta ancora addosso i segni della società, un completo grigio gessato con cravatta, catapultati fuori e lontano dai giochi e dagl’intrecci di potere, dunque inutili, perché non più sfruttabili, entrambi alla ricerca di un congiunto: il marito di lei e il cognato di lui. La presa di coscienza è keatoniana; le conversazioni, paradossali, surreali, tragicomiche, rigorosamente intessute ognuno dalle proprie postazioni sui due letti a castello. Prima di decidere come ripartire verso il nuovo giorno, occorre ritrovare il cognato, deportato dalla propria abitazione rinchiuso all’interno dell’armadio da dove distribuiva abiti per gli altri. Un rapimento anomalo, senza richiesta di riscatto, con i familiari della vittima che hanno una sola possibilità: impossessarsi di nuovo dell’armadio, che si troverà in uno dei tanti mercatini dell’usato. Una volta comprato, sarà facile, perché i sequestratori, in segno di totale disprezzo, hanno lasciato agli scampati la chiave della serratura. Ma riaverlo non sarà facile, perché occorre comprarlo e visto che non è ancora stato finito di pagare, l’acquisto di un acquisto si fa troppo oneroso. C’è tempo di riflettere e visto e considerato che tutti e quattro i naufraghi hanno deciso di condividere quella rinascita, che poi è l’unica percorribile, ognuno di loro esprime un desiderio, che si risolve, per tutti, in uno slancio, indispensabile, di elementare tenerezza: il patto di sangue consiste in una semplice carezza, che non ha bisogno di soldi, abiti, sovrastrutture, accordi, sottoscrizioni, contratti; la soluzione è lì, alla portata di chiunque: è sufficiente accorgersene, volerlo.

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