di Letizia Lupino
PISTOIA. Ah, che bello correre dopo lavoro verso il Funaro di Pistoia con la palpabile sensazione di un sorriso compiaciuto e presto soddisfatto. Ciò che ci attenderà sarà dunque rapidamente svelato: il palco ingombro mostra la sua stretta ampiezza, sei quinte che nascondono altrettante impalcature di luci; un tappeto di fiori inebria il pavimento e poi sedie e tavoli, alcuni rovesciati a terra e altri no, bottiglie e bicchieri, lampadine e stelle filanti tutto intorno: l’indiscutibile passaggio umano, la fine della festa. Fabio Troiano guidato da Giorgio Gallione guiderà noi, attraverso Il Dio bambino, nei meandri di una normalissima storia d’amore, a tratti quasi banale, nell’annoso confronto relazionale tra uomo e donna. Un cicerone che ci traghetterà per più di un’ora tra maree, cavalloni e secche con l’indubbio salvagente ironico. Trent’anni. Sono passati esattamente trent’anni dalla stesura di questo testo da parte del Signor G e Luporini che stasera vive e pulsa di un rinnovato vigore con la lapalissiana certezza che fra altri trent’anni continuerebbe a brillare fulgido. È una strada che si consuma parola dopo parola, gesto dopo gesto, passo dopo passo. Un tragitto fisico oltre che figurativo quello che Fabio fa, perché è come se donasse nuova tridimensionalità raccontandoci la sua vita, una porzione, forse la più importante, sicuramente la più travolgente.
Un monologo tragicomico che approfondisce ciò che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo sperimentato: innamorarsi e poi provare per crescere e riuscire a curare per durare nel tempo e nonostante il tempo. Un monologo scritto a due mani di una lucida contemporaneità che non fa sconti e non si auto assolve mai, ma che indaga con spietata arguzia l’Uomo, il bambino, costui che si trova davanti a noi, nudo, pronto financo a farsi giudicare ma a dirci con tutto il cuore che ha quello che il cuore ha pulsato in tutta la fibra del suo corpo. Ecco quindi che cos’è. Il testo ha cuore e fieramente mostra l’appariscente organo che contiene e i mondi che albergano in esso in una girandola di sentimenti che ci coinvolge tutti. È il confronto della vita, con la Donna intanto, antagonista forse per antonomasia, che mette all’angolo, sia che si palesi sia che non lo faccia e con sé stesso poi e soprattutto, dove avvocato, giudice e giuria diventano un tutt’uno. Il Dio bambino è il particolarissimo teatro alla Gaber, l’evocativo che non ha tempo, ma che crea ponti e scioglie nodi. La trasposizione del bambino che si adatta ora all’Uomo, ora alla Donna, ora alla relazione, dai primi vagiti ai passi incerti di un puledro che tenta di alzarsi, fino alle sudate consapevolezze, passando dall’egoismo che vince sempre con prepotenza, perché in conclusione la comprensione, quella vera, è roba per adulti. La fine della festa è questo: togli le stelle filanti, sistemi sedie, bottiglie e bicchieri, pulisci la sala, si raccolgono i propri cocci e si osservano; qualcosa si tiene e qualcosa no, solide fondamenta che si ricostruiscono. Non possiamo non farci catturare perciò dalla profonda intelligenza che il testo ha e che la regia ha ben saputo farla trasudare dall’inafferrabile professionismo di Fabio Troiano.