PISTOIA. Non sapevamo che Castrovillari, comune del cosentino, vantasse tanti emigrati in Toscana. E ancor più ignoravamo che molti di loro fossero attratti dal teatro. Non può essere che così, visto e considerato che ieri sera, al Funaro di Pistoia, ad assistere a Via del Popolo, un’altra narrazione, stavolta autobiografica, di Saverio La Ruina, tra il pubblico ci fossero così tanti calabresi, anzi, castrovillaresi. Non è insolito, anzi, è abitudine, che al termine delle rappresentazioni teatrali parte del pubblico aspetti, all’uscita, i protagonisti. Al Funaro di Pistoia, poi, è quasi inevitabile, visto che dai camerini si passa direttamente al foyer dell’associazione, una specie di patio interno alla struttura. Ma ieri sera, ad aspettare il monologhista calabrese e la sua naturale grazia non c’erano gli spettatori degli autografi o quelli dei complimenti, bravissimo, spettacolo delicato: mi sono commosso, mi creda; c’era tutta gente di Castrovillari, che si è ritrovata piacevolmente invischiata nei suoi ricordi, quelli di un Comune risucchiato e risputato dal tempo in un tempo passato, indimenticato, ma avvilito. È il destino che accomuna il tempo nelle sue trasformazioni, che cambia i negozi, gli inquilini, i condomini, le usanze, i riti, le dinamiche sociali, cambiamenti epocali che i libri di storia non possono contemplare dettagliatamente, soprattutto sapendo, gli storici, che a fissare indelebilmente nel tempo i momenti salienti delle singole generazioni ci penserà il Teatro. Saverio La Ruina, della narrazione della sua gente, della sua terra e delle sue dinamiche ne ha fatto il suo teatro, alternando pagine di pura emozione/commozione ad altre di denuncia, sempre con la solita, meravigliosa, flemma artistica, quella che conviene alle favole per i più piccoli. La scenografia di Via del Popolo, ideato e scritto dal quattro volte Premio Ubu e prodotto da Scena Verticale, una sua cocreazione, è esemplarmente minimale: un mastodontico orologio di daliana memoria che campeggia il proscenio e una serie di lumini in terra, che sono le lapidi del cimitero di Castrovillari, dove Saverio e il suo amico incontrano quelli che del loro paese hanno fatto la storia. Sono tutti morti, naturalmente, ma nella rappresentazione vengono resuscitati per dare vita, energia e bellezza ai ricordi del protagonista. Via del Popolo non è solo il corso principale di Castrovillari, dove ci sono i negozi più illuminati, attrazione fatale per la popolazione residente; è anche la via della memoria, di uno scorcio generazionale che da lì è partito alla volta della conquista del mondo personale, ma che lì, prima o poi, è necessario che torni, non foss’altro per vedere come sia cambiato, non foss’altro per raccontare, a chi non c’era, come fosse. L’interlocutore privilegiato è suo padre, in punto di morte; la famiglia, inossidabile, indistruttibile, granitica, è la macchina che gira intorno al vecchio che ha saputo costruire, con fermezza, tenacia e abnegazione, il futuro ai suoi figli, che non certo per irriconoscenza, ma inesorabilmente, sono andati a diventare uomini e donne altrove. Portandosi però, dietro e dentro, l’aria pungente di quella montagna che divideva in due le sorti e i destini della sua gente; di qua e di là dal versante del Pollino c’erano due mondi che, seppur paralleli, finivano per ignorarsi. Il Pollino è ancora lì, ma l’evoluzione tecnologica ha spianato quell’altura e tutte quelle ancor più forti e austere del mondo, dando l’impressione, e non solo ai castrovillaresi, che ognuno di noi sia, contemporaneamente, dov’è e dove vorrebbe essere. E invece è opportuno continuare a fare i conti con il Tempo, dando a ognuno dei protagonisti del passato il suo peso specifico, nel bene e nel male. È così che si riescono a tenere in piedi i fili della storia, casomai facendo la barba al vecchio padre morente con il rasoio cinque lame, anziché con il suo bic monolama. Una pagina di tenerezza, nella quale il protagonista, gli spettatori conterranei e quelli che hanno vissuto e sono cresciuti altrove, possano ritrovare e ritrovarsi negli aneddoti della loro infanzia, che somigliano, incredibilmente, a quelli che Saverio La Ruina continua a raccontare, con l’invito, esplicito ma inascoltato, a non correre verso il tempo, ma a trascorrerlo.