di Luigi Scardigli
PISTOIA. La tentazione sarebbe quella di esordire raccontandovi che attorno al piccolo teatro Bolognini e dentro, ieri sera, 26 gennaio, la logica dell’(in)sicurezza ha voluto che con gli spettatori, a vedere Fa’afafine, lo spettacolo destinato alle scuole ma che l’Atp ha intelligentemente proposto anche agli adulti, ci fossero agenti di Polizia e Carabinieri pronti, eventualmente, a intervenire. E invece, dimenticando volutamente la cronaca, ci concentriamo sullo spettacolo e vi raccontiamo che cosa è stato, e cosa speriamo che diventi, Fa’afafine: un invito, un consiglio, una forma mentis, un suggerimento; la normalità. Basta, ora basta; non se ne può davvero più di dover usare le pinze per parlare di omosessualità. Perché da quando esiste il mondo, nel primo cosmo dell’infanzia, ci sono i bambini, le bambine e i fa’afafine, che poi crescono e diventano uomini, donne e fa’afafine.
di Luigi Scardigli
LAMPORECCHIO (PT). La platea del teatro di Lamporecchio si sta velocemente riempendo. Nella sala, nonostante gli spettatori ci arrivino incappucciati per proteggersi dal freddo intenso che sibila sotto un cielo stellatissimo, si ode il ticchettio della pioggia. La fedeltà alla pellicola di Roman Polanski, Venere in pelliccia, a sipario ancora chiuso, è immediatamente certificata, ma Valter Malosti, il regista, che poi dividerà il palco con una straordinaria Sabrina Impacciatore, ha voglia di andare oltre e non si accontenta dell’elastico vittima-carnefice che anima l’inaspettato incontro tra l’adattatore del romanzo di Leopold von Sacher-Masoch e Vanda Jordan, una borgatara metropolitana doc che aspira a fare l’attrice e che vuole il ruolo di Wanda Von Dunayev a tutti i costi.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Non è facile prendere per il naso, contemporaneamente e con incredibile leggerezza, due mostri sacri come il colonialismo israeliano legato al secolare conflitto con gli arabi e l’inspiegabile scienza coreografica. Hillel Kogan e Adi Boutrous ci sono riusciti, portando in scena, da giovedì scorso a ieri sera, sabato 21, in esclusiva per la Toscana, sul palco del teatro di Rifredi, We love arabs, un concentrato di ironia, poesia e bellezza, che fornisce e suggerisce addirittura un epilogo: la comunione, la fratellanza, la pace.
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di Luigi Scardigli
PISTOIA. La rilettura goldoniana de La locandiera è audace, a onor del vero, ma siamo disposti a concedere qualsiasi divagazione sul tema, anche a costo di voler sembrare e sembrare poco obbiettivi, perché stavolta ci prendiamo il lusso di concentrarci solo e soltanto sulla mattatrice, Laura Morante e tralasciamo tutto il resto. Che merita attenzione, commenti, dubbi, distinguo, valutazioni, oggettive e soggettive, tutte cose che passano, letteralmente, in secondo piano. E non ce ne voglia, ad esempio, Danilo Nigrelli, l’ospite inatteso e strategico; Bruno Armando e Vincenzo Ferrara, i due impresari sinistri invitati per chiudere l’affare; Giulia Andò e Eugenia Costantini, le due escort al seguito, né Roberto Salemi, il contabile sacrificato dalla sua silente vecchia passione. E nemmeno il regista, Roberto Andò, che ha giustamente approfittato della poliedricità recitativa e della bellezza giunonica di Laura Morante per farle riindossare gli abiti di Mirandolina.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Maneggiato con cura, ma con estremo coraggio, aggirando l’ostacolo criminoso e l’isola di Utoya da chi, inerme, oltre a voler andare a vedere il sangue e il dolore, sente la necessità di capire. E interrogarsi. La risposta, Utoya, spettacolo mandato in scena ieri sera, 17 gennaio, al Bolognini, la succursale del Manzoni, fuori abbonamento stagionale (decisione opinabile, a nostro vedere), non la offre, perché di risposte, Edoardo Erba, che ha affidato la regia a Serena Sinigaglia e l’interpretazione, o meglio, la lettura, a quel talento innato di Marianna Scommegna e a questa meravigliosa realtà che risponde al nome di Mattia Fabris, ha deciso di darne più d’una. Lo fa affidandosi al camaleontismo fisico e vocale dei due mattatori, che interpretano tre uomini e altrettante donne, più o meno direttamente coinvolti in quella paurosa carneficina norvegese del 22 luglio 2011.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Stefano Benni è semiserio di professione, quasi sempre geniale, politicamente molto scorretto, che contiene a stento la propria blasfemia, mai scontato. Per il suo Pecore nere, che da giovedì fa tappa al teatro di Rifredi, a Firenze, si è affidato a quattro attrici effervescenti, con le bollicine, che rendono perfettamente l’idea del salone dell’ospizio nel quale la vecchia Ida (Emanuela Guaiana) è stata parcheggiata dalla figlia. Ad accudirla, in una delle tante sere maledettamente uguali alle precedenti e certamente simili alle future, un’infermiera (Valentina Chico), che la lascia per qualche minuto in compagnia della sola televisione, dalla quale, per magia, uscirà la protagonista di una soap latino americana (Elisa Benedetta Marinoni), alla quale si unirà, in questo concistoro rigorosamente femminile, un’ape operaia (Valentina Virando) e una cagna (labrador, ancora Valentina Chico).
di Luigi Scardigli
FIRENZE. A settembre, il mare, certe volte è più bello che in agosto. Soprattutto pensando che le ore più fascinose, quelle del tramonto, te le puoi gustare senza ansie: quando il sole fa pluf, nel mare, oltre la linea dell’orizzonte, si può anche rincasare, per preparare la cena. È così che Alvaro (Marco Natalucci), sposato da trent’anni con Mara (Beatrice Visibelli), cerca di convincere la moglie che decidere di consumare le vacanze in settembre non è solo parsimonioso, ma anche conveniente. I marziani al mare (dieci anni dopo), della Compagnia Teatri d’Imbarco e Pupi e Fresedde, scritto da Alberto Severi (ieri in sala emozionato e tragicomicamente divertito come la prima volta) per la regia di Nicola Zavagli, si giustifica così, con questa vacanza povera, con gli ombrelloni ormai quasi tutti chiusi, su quella spiaggia bianca, quella di Vada, a sud di Livorno, la perla italobelga del Tirreno settentrionale.
di Luigi Scardigli
PERUGIA. Al termine della rappresentazione, a trenta minuti scarsi dalla mezzanotte dell’ultimo dell’anno, il pubblico che ha gremito il teatro Morlacchi di Perugia non è proprio soddisfatto. Nudi e crudi, però, non ha tradito le attese: la storia di Alan Bennett, tradotta per l’occasione da Edoardo Erba, è quella e scendendo nei dettagli teatrali, la coppia sul palco è perfettamente miscelata. Paolo Calabresi, mister Ransome, l’avvocato, è un perfetto lord inglese; Maria Amelia Monti, lady Ransome, la moglie, perfettamente succube del marito, anche se… Nicola Sorrenti è la voce fuori campo, il narratore, l’inquilino del piano di sotto, l’assicuratore, quello che stimerà in centomila sterline il danno subìto dal furto che i coniugi hanno tristemente dovuto constatare al rientro in una sera di febbraio, da una rappresentazione teatrale di Mozart, che è la passione più grande di mister Ransome.
FIRENZE. Non mancherà occasione di rivederli all’opera, i Tre uomini e una culla, o i Tre ragazzi e una bimba, come recitava il biglietto dello spettacolo che ieri sera, prima delle sette repliche, ha ufficialmente aperto il capodanno al teatro di Rifredi, a Firenze. Siamo davvero curiosi di vederli ancora, ma su altri copioni, con altri testi e con un plot del tutto diverso, perché nonostante le risate che hanno accompagnato la rappresentazione, a noi non hanno divertito affatto. Peccato, però, perché non si tratta di tre, anzi, quattro dilettanti allo sbaraglio.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Rispetto alla stesura originaria, quella andata in scena la settimana scorsa di 85 anni fa, al Kursaal di Napoli, Natale in casa Cupiello, oggi (ieri sera) e fino al prossimo 8 gennaio al teatro La Pergola di Firenze, è più stringato, meno ridondante. Non potrebbe essere altrimenti: nei panni di Luca Cupiello non c’è più il suo inventore, Eduardo De Filippo, anche se a sostituirlo c’è un suo omonimo, che ne è anche il nipote, Luigi. Salutiamo con piacere la rappresentazione fiorentina della compagnia I Due della Città del Sole perché una volta l’anno, siamo onesti, vi perdereste mai Il grande Lebowsky, al cinema, o la semifinale in televisione Italia-Germania dei Mondiali di calcio messicani, o un concerto, scegliete voi dove, di Pat Metheny? No, senza ombra di dubbio.
di Luigi Scardigli
LUCCA. Le è rimasto soltanto il bianco, candido, del vestito che indossa, oltre la solita mostruosa e tenerissima personalità; ieri sera non era nemmeno scalza, figuriamoci. L’elemento che colpisce, conoscendola (un onore, per noi) è la crescita artistica esponenziale, a vista d’occhio, si potrebbe dire e lo scriviamo, di Elisabetta Salvatori e della sua struttura teatrale, della quale, ieri sera, 16 dicembre, al Giglio di Lucca, ne ha offerto una preziosa testimonianza, raccontando ad un pubblico attentissimo oltre ogni ragionevole partigianeria, la vita parallela del magnifico indigeno Giacomo Puccini, Piccolo come le stelle. Del Freddie Mercury dell’Opera, accostamento dettato dalle rispettive grandezze musicali e dallo stratagemma, usato da entrambi, di folti baffi utili soprattutto a nascondere un arco dentale troppo pronunciato, Elisabetta Salvatori, accompagnata sul palco per questa nuova fiaba sussurrata con la forza e la penetrazione di un’artista vera, dal violino di Matteo Ceramelli, ha voluto raccontare la parte biografica dell’erede di Giuseppe Verdi.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Si chiamava Studio Uno e al posto della venere nordica Ilenia Romano (ammirata e applaudita poco tempo fa in Alfa, dello stesso Castello, al teatro dello Scompiglio di Vorno di Lucca), tre estati fa, al Funaro di Pistoia, Roberto Castello aveva deciso di piazzare, come quarto elemento apocalittico della sua compagnia Aldes, uno dei suoi danzattori stabili, Stefano Questorio. Fu nel salone in legno dell’indispensabile oasi artistica pistoiese che la sua danza critica fece l’ultima prova tecnica di trasmissione, prima di diventare, al Cantiere Florida, di Firenze (si replica stasera e domani, 16 dicembre, alle 21) In girum imus nocte et consumimur igni, che seppur non sembra possa potersi attribuire a Virgilio, resta comunque un famoso e angosciante palindromo.
di Luigi Scardigli
PRATO. Speriamo che con il tempo, i timori di Francesca Taverni, la madre superiora dello spettacolo Sister Act, in scena la Politeama di Prato anche oggi, 1 dicembre, alle 16, si dissolvano e anche in questo paese (la p è piccola e così resterà ancora per lungo tempo, purtroppo), il musical assuma una sua specifica e considerata identità e non venga considerato come l’ancora di salvataggio del teatro e della musica nel loro amplesso. Perché l’intero cast artistico della trasposizione teatrale del successo oceanico del film del 1992 non ha certo da invidiare nulla. A nessuno. Belia Martin, ad esempio, affascinante creola madrilena, non fa mai rimpiangere le doti canore e recitative di Woopi Goldberg, la svitata in abito da suora nella pellicola di Emile Ardolino, così come nessuno dei protagonisti del musical assoldati alla causa artistica da uno dei più esperti e lungimiranti registi del settore, Saverio Marconi.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Audace e rispettoso. Violento e tenero. Rivoluzionario e fedelissimo; ateo, fino alla blasfemia e deciso a recidere, ora e per sempre, quel legame pernicioso con la tradizione, utilizzando, per questa meravigliosa trasposizione di Natale in casa Cupiello, richiami letterari (Pirandello), filosofici (Kafka) e pittorici (il Barocco, napoletano, naturalmente) perfettamente incastonati nel dipinto originario, quello scritto nel 1931 da Eduardo De Filippo e che un suo successore, Antonio Latella, circa ottant’anni dopo, ha riproposto con tassonomica precisione da ieri, 9 dicembre, al teatro Manzoni di Pistoia, fino alla seconda e ultima replica pomeridiana, quella in programma domani. Consegnando a donna Concetta le redini della sopravvivenza umana e prendendosi però ogni licenza (im)possibile e (in)immaginabile, fino alle contaminazioni liriche di Rossini e quelle trip hop, riconducibili a Mezzanine, dei Massive Attack, fino all’inaspettabile epilogo parricida, unico modo, questo, per come liberare il padre colpito da ictus dai deliri agonizzanti della malattia e liberarsi, una volta per tutte, dallo spettro dell’antichità del presepe, consegnare il pater familias alla reincarnazione rituale nella sua sorda e cieca illusione e dare ai Cupiello la speranza di poter sperare.
di Alessandra Mr D'Agostino
MILANO. Sul citofono non c'è traccia. E intorno non ci sono che altri sguardi. Di chi, come noi, attende. La scomodità è il punto di partenza. Mancano una manciata di minuti. E troviamo il modo per entrare dal kafkiano cancello metallico. E una volta oltre, attendere, ancora. È questo il prologo è de La Mala, rappresentata nei giorni scorsi a Milano, allo Spazio Nuovo, per la regia di Lena Rumy e lo potenza espressiva e rappresentativa di Annalisa Falché. La scomodità è il punto di partenza. La porta a vetri si apre. Una giovane donna, dai lineamenti delicati ci chiama. Ci spunta da una lista. Così scendiamo la scala stretta. La scomodità è il punto di partenza. Di fronte a noi la prima creatura scenica. Un uomo solido. Fermo. Seduto come sfinge. Con tanti La Vita cartacei, cuciti al pull blu.
di Luigi Scardigli
VORNO (LU). Il prodotto, se cambiassimo l’ordine dei fattori, probabilmente cambierebbe. Il paradosso ha ragion d’essere a teatro, non certo con i numeri, ma anche nel mondo dell’arte, il condizionale, è d’obbligo, perché certezze, ahinoi, non ne abbiamo, nemmeno scambiando i genitali, nemmeno poggiando la donna sul piedistallo e l’uomo, più in basso, a riverirla. ALFA – appunti sulla questione maschile - in scena, in prima, ieri sera alla Tenuta dello Scompiglio (si replica stasera, domenica 4 dicembre, alle 19,30) - questa condizione, al momento solo virtuale, ha deciso di non contemplarla, se non vagamente, e se non nell’unico momento, apicale, nel quale la donna è sì, elevata, ma per essere comprata, usata, utile solo per la circoscritta soddisfazione, primaria e animale, degli istanti maschili, che vanno appagati, a qualunque costo.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Il sodalizio artistico merita una riflessione approfondita, perché se affidiamo le idee, geniali, di un piccolo grande autore, Emanuele Aldrovandi al camaleontismo scenico, fonico e gestuale di un piccolo grande regista/attore, Ciro Masella, l’equazione teatrale non può passare inosservata. Il Generale, sul palco del teatro di Rifredi, a Firenze, da giovedì 1 a sabato 3 dicembre, è idealmente il frutto di questa commistione e il pubblico che adora lasciarsi infilzare dal nuovo che avanza, è stato abbondantemente ripagato.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. La cosa straordinaria di Benvenuti in casa Gori, questo cult teatrale-cinematografico, anzi, cinematografico-teatrale, di questo cult generazionale, è la perfetta, meticolosa, straordinaria individuazione di ogni singolo personaggio che offre il meglio e il peggio di sé al pranzo di Natale. Ma sul palco del teatro di Rifredi (da giovedì 24 novembre fino a stasera, domenica 27) non ci sono Libero, Bruna, Lapo, nonno Annibale, Adele, Gino, Sandra, Luciano, i giovani fidanzati Danilo e Cinzia e la piccolissima Samantha (l’acca è d’uopo); o meglio, ci sono tutti, ma è solo lui, Alessandro Benvenuti, che ha scritto la commedia con Ugo Chiti e che ne è il regista, che indossa, prima che gli abiti, i loro umori. Certo, la resa cinematografica (uscì nel 1990) fu memorabile, anche perché, per proiettarlo sul grande schermo, il saggio dei tre ex Giancattivi si avvalse, oltre che dell’altro pezzo da novanta, Francesco Nuti (che lo produsse) della femmina del trio, Athina Cenci e di un pool di toscanacci davvero notevole: Carlo Monni, Ilaria Occhini, Novello Novelli, Giorgio Picchianti e un già impresentabile Massimo Ceccherini.
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di Luigi Scardigli
PISTOIA. E’ una storia vera, si vocifera, quella sulla quale Gli Omini hanno messo in piedi il loro ultimo spettacolo, Più carati, mostrato in settimana in anteprima al piccolo teatro Bolognini agli studenti e in serata, oggi e domani (19 e 20 novembre), al pubblico pagante. E che ricorda, maledettamente e fortunatamente da vicino, tutto quello fatto fino ad oggi dalla compagnia nei loro primi dieci anni di vita, da CRIsiKo! fino a Ci scusiamo per il disagio, ma senza omettere nulla di quello che è successo nel mezzo, tra la ricerca di linguaggi autoctoni e le loro più fertili smagliature, fino all’esaltazione di una risposta surreale – e mai data - a tutti gli interrogativi generazionali che stritolano i trenta/quarantenni di ogni epoca. Stavolta, a sconvolgere i precarissimi equilibri deontologici e deambulatori dei tre amici in cerca di qualcosa che riesca a farli emergere dal grigiore di una infinita rincorsa alla felicità, un gruzzolo di soldi e uno smeraldo (di dodici carati) trovati per caso nel primo pomeriggio di una giornata tipicamente autunnale, dentro una busta, sotto il bancone del bar Gigli, a Firenze, in piazza della Repubblica.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Il Natale si avvicina a grandi passi e la tacita organizzazione mondiale dello spettacolo allestisce, nei paraggi della festa delle feste, i suoi addobbi più cari. La commedia all’italiana – e L’anatra all’arancia ne è pietra pregiata -, anche se scritta da uno scozzese (William Douglas Home) e portata in scena da un francese (Marc Gilbert Sauvajon) è una di quelle a massima resa. Se poi sul palco sale uno come Luca Barbareschi, che poco ha da invidiare ai suoi illustri predecessori come Alberto Lionello (a teatro) e Ugo Tognazzi (al cinema), l’equazione è completa. Va bene, Chiara Noschese non arriva a Valeria Valeri (Monica Vitti non la nominiamo nemmeno, temendo l’ira funesta della divinità della recitazione) e Margherita Laterza non ha il vezzo sciocco di Barbara Bouchet (ma il suo lato B però è sull’Olimpo della fortuna), ma la serata vola via veloce e in più di un’occasione si sorride con gusto, siamo onesti.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Il marchio di fabbrica è autentico, anche se in alcuni momenti non originalissimo. Ma che Ubu roi sia l’ennesima scommessa di Roberto Latini e del suo Fortebraccio Teatro, si capisce dalle prime immagini, quelle mandate in onda ieri, al teatro di Rifredi (si replica tutte le sere fino a sabato prossimo, 19 novembre: utile vederlo), dove il regista/performer/attore ha dato vita al riadattamento della vecchia favola di Alfred Jarry, un’allucinazione shakespeariana che rimbalza tra Pirandello e Beckett e nella quale, oltre a un sacco di cose del proprio forbito background, ha voluto mettercene delle nuove. Che sono poi vecchie, ma che rinascono puntualmente sotto altre spoglie, riconoscendosi tra loro e offrendo le generalità al pubblico solo durante il tragitto scenico.
di Luigi Scardigli
MONTECATINI (PT). Quello che succederà dopo, non è dato saperlo; e non perché si sia dei laici incalliti. Ciò che si consuma in prossimità, invece, lo sappiamo tutti, al di là del nostro agnosticismo. Stiamo parlando della morte, di quella raccontata, ieri sera, sabato 12 novembre, alle Terme Excelsior di Montecatini, in provincia di Pistoia, da Paola Vannoni e Roberto Scappin, autori e interpreti di Io muoio e tu mangi, uno dei sei appuntamenti teatrali (Sconfinamenti) organizzati da Ultimo Teatro Produzioni incivili, la compagnia nomade, più che itinerante, ideata e sorretta da Luca Privitera e Elena Ferretti.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Un’opera floydiana, con un messaggio visivo che spesso – ma non lo diciamo per sminuirne il plot – sovrasta e annulla quello verbale. E’ la storia andata in scena ieri sera, 11 novembre, al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica stasera, alle 21 e domani, alle 16); è la performer di Daniele Salvo, ronconiano doc, con licenza di divagare e di affidarsi, nell’occasione, a Michele Ciacciofera (che si è avvalso, a sua volta, di Paride Donatelli, per le video proiezioni), sontuoso videomaker, capace di un allestimento prodigioso, quello delle Baccanti (prima regionale, prodotto dalla Fabbrica dell’Attore, Teatro Vascello di Milano in collaborazione con quello rumeno di Costanta), fedelmente ispirato alla tragedia di Euripide, scritta pochi mesi prima della sua morte, quattro secoli prima dell’avvento del Cristianesimo.
FIRENZE. Ecco perché costa così poco, quel bellissimo appartamento, di otto stanze, nel centro di Firenze! Prima che la Merlin e l’ipocrisia, tipicamente cattolica, chiudessero le case di tolleranza, in via dell’Amorino c’era una casa di appuntamento e ora, vallo a spiegare ai vicini di casa, agli amici al bar, ai colleghi, che dopo la morte della maitresse, sora Cesira, in quella casa non ci sono più le prostitute, ma la famiglia Ciuti, una famiglia di tutto rispetto, con padre, madre, due figli, nonno paterno e sposo promesso della ragazza. Casa nova vita nova, in scena ieri al teatro di Rifredi, a Firenze (si replica stasera e domani, 5 e 6 novembre, e poi ancora il prossimo fine settimana), scritto - proprio durante l’aberrante iter legislativo di quell’infausto provvedimento - da Vinicio Gioli e Mario De Mayo e adattato per questa rivisitazione da Angelo Savelli, racconta ancora una volta i giorni di quella legge, salutata con hurrà e brindisi il giorno e maledetta, puntualmente, la notte.
FIRENZE. Le sedicenni giocano ruoli imprevedibili, nella storia. La più famosa, Enrichetta Blondel, fu quella che indusse il suo amato Alessandro Manzoni alla conversione, con tutto ciò che ne conseguì: il Romanticismo. Anche Stefania Sandrelli, con il cantautore, non ha scherzato affatto: Gino Paoli è rimasto lo stesso, vero, e questo non ha prodotto nulla, per fortuna; per lei, però, in virtù di quel rapporto libertino, si sono spalancate le porte del cinema e tutti i migliori, ma proprio tutti, sono restati ammaliati, più che affascinati, dall’indiscutibile bellezza della viareggina, che negli ultimi cinquant’anni di cinema ha inanellato una serie impressionante di riconoscimenti e di presenze leggendarie. Il fatto che a noi, professionalmente, non sia mia piaciuta, non interessa a nessuno (nemmeno a noi); a teatro, però, mandatela solo come spettatrice, casomai accreditandola alla carriera dello spettacolo, ma sul palco no, perlamordiddio.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Non tutto quello che dicono arriva direttamente a destinazione. Parlano in francese e nonostante la lingua transalpina sia più familiare di molti altri idiomi europei, qualcosa, di Exil, non può che sfuggire. Ma non la sostanza, la poesia, il dolore, la visione futuristica, lo sguardo al passato, la solitudine, lo sconforto, l’idea di fratellanza. Anzi. Prima della rappresentazione, nella sala spettacoli del Funaro, a Pistoia, un’addetta ai lavori si offre, con dovizia e grazia, a tradurre, simultaneamente, quello che Sonia Wieder-Atherton, la regista-violoncellista (coadiuvata, nella costruzione dello spettacolo, da Sarah Koné), ha innescato nella sua miscela. Ci sono le persecuzioni storiche e bibliche, quelle sofferte realmente dai popoli e quelle dipinte sulle arcate dei battisteri, ma non sono delimitate, circoscritte, identificate: non siamo in nessun posto del mondo dove si calpestano diritti e sagome. Siamo. E basta, purtroppo.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Irriverenti, geniali, provocatori, scurrili, blasfemi. Sono due drag queen pentite, ricordano Charlie Chaplin e Michael Jackson, Ridolini e Buster Keaton, Antonio Albanese e Pina Bausch, Jacques Tati e Roberto Bolle, Totò e Lola, quella che corre, ma anche il Filippo Timi di Bambole, o i neologismi dialettali delle sorelle Macaluso, di Emma Dante. Insomma, straordinari. Vederli all’opera, Alfonso Barón e Luciano Rosso, è un piacere assoluto: rinfrancano lo spirito, allontano i pregiudizi, offrono su un vassoio, affatto prezioso, la loro danza, che è la mortificazione di quella che si ha in testa da bambini, divertono molto e si divertono da pazzi, rivendicando, con elegante orgoglio, il diritto all’omosessualità. Si amano, si cercano, si trovano e abbattono, in più di una circostanza, le elementari leggi della fisica e dell’aerodinamica. Sono in Italia per la prima volta; a Firenze, per l’esattezza, al teatro di Rifredi, nel dettaglio urbano, a dar spettacolo.