PISTOIA. Si può dare un nome alla bellezza? E, ancor prima e forse di più, la bellezza è titolabile? Dubitiamo da sempre, in particolare al cospetto della danza. Senza mettere lontanamente in discussione gli intenti coreografici di Michele Di Stefano, che si è preoccupato e occupato di scriverlo, sul foglio di sala, quali fossero, siano e saranno i suoi intenti nel mettere in scena Bayadere – Il regno delle ombre. Le cose che abbiamo visto noi, al Teatro Manzoni di Pistoia, ci hanno raccontato e descritto tutta una serie di emozioni e informazioni che spesso, a stento, siamo riusciti a collegare con quello che Cristina Bozzolini, direttore artistico del Nuovo BallettO di ToscanA ha voluto ed è riuscita perfettamente a somministrare ai suoi dodici ballerini, che si sono interfacciati e dati il cambio, con esemplare sincrono e affiatamento, sul palco spoglio della struttura, sul quale, gli unici spazi ammessi, pare dovessero essere proprio le ombre. Detto e scritto così, sembra che da parte nostra, spettatori, come ripetiamo fino alla nausea, ultra privilegiati, sembrerebbe quasi che sulla rappresentazione avessimo voglia di fare alcune obiezioni tese a sminuire il mastodontico impianto recitativo di Lisa Cadeddu, Matteo Capetola, Carmine Catalano, Alice Catapano, Beatrice Ciattini, Matilde Di Ciolo, Roberto Doveri, Veronica Galdo, Aisha Narciso, Aldo Nolli, Nicolò Poggioni e Paolo Rizzo.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Sono in ritardo. Quelle poche centinaia di metri che mi separano dal Teatro Manzoni di Pistoia li bevo tra il gelo che mi stuzzica le guance e lo zaino che fastidiosamente scivola dalla spalla. Arrivo trafelata in galleria centrale: mi sembra di essere così vicina al palco. L’atmosfera buia mi avvolge immediatamente; senza darmi nessun punto di riferimento mi siedo inciampando. Solo pochi minuti e Argante ha già calcato la scena. Teatri di Pistoia infatti accoglie Il malato immaginario di Molière. Un’opera gigante, un classico che la regia di Guglielmo Ferro rinfresca, rimanendo pur sempre nei limiti di un testo del’600. È il teatro come finzione, come filtro della realtà che fa sì che Argante si serva della malattia non solo per elevare uno status che sembra languire, ma anche per giustificare una lisa volontà nell’affrontare i dardi dell’autrice fortuna. Argante, infatti, sembra palleggiare tra le facili macchinazioni di Bellonia, sua seconda moglie, tra gli infiammati sospiri di sua figlia Angelica e fra il Dottor Diaforetico, figlio d’arte, che pare divertirsi nel somministrare variegate medicine nel tentativo nullo di guarire la paura di vivere di Argante.
PRATO. In tanti, tanti anni di teatro, ci siamo imbattuti spesso in calorosi scroscianti applausi tributati a modeste compagnie al termine di modeste, modestissime rappresentazioni. Ieri sera, invece, nonostante la Coppa Ubu che il Metastasio (grazie al fortunato progetto G.L.A.) sfoggia, orgogliosamente, nella vetrina della biglietteria (ci sarà anche stasera, alle 19,30 e domani, per la pomeridiana delle 16,30), il pubblico, senza mezze misure (giovani liceali e abbonati storditi), al cast de I due gemelli veneziani ha prudentemente riservato un immotivato avaro e languido battito di mani. Strano, perché chi ama il teatro e chi avrebbe la presunzione di volerlo fare, spesso solo dietro suggerimenti terapeutici, per uno spettacolo del genere dovrebbe pagare qualcosa in più del normale prezzo del biglietto. D’accordo, Carlo Goldoni e le sue storie sono state, e lo saranno per l’eternità, probabilmente, usate, interpretate e seviziate in ogni salsa, ma questa, riadatta da Angela Demattè e affidata alla cura di Valter Malosti, è, oggettivamente, un’operazione arguta, che si spoglia, fino alla nudità, della scenografia e chiede, agli attori, di riempirla con la smorfia, le parole e il corpo, i vecchi, intramontabili, tre requisiti che dovrebbero possedere tutti coloro ai quali si offre la possibilità di salire su un palcoscenico.
di Luna Badawi
PRATO. Sono le 20.45 e il teatro Metastasio (si replica stasera, sabato 11 dicembre e domani pomeriggio) di Prato è colmo di persone curiose di godersi una grande festa. Una festa a cui l’intero paese è stato invitato. L’ultima festa prima della fine del mondo. Siamo di fronte all’omonima opera di Tomasi di Lampedusa e il film di Luchino Visconti che sono parte del nostro immaginario collettivo. Una grande icona cultural-popolare. Le Gattoparde, le Nina’s Drag Queens: Alessio Calciolari, Gianluca Di Lauro, Sax Nicosia, Lorenzo Piccolo e Ulisse Romanò, un’interessante compagnia teatrale nata nel 2007 a Milano, dall’incontro dell’amore per il teatro e della voglia di esprimersi in modo diverso, con linguaggi differenti e con libertà da ogni sovrastruttura, ci raccontano attraverso una sfavillante commedia, dalla regia di Ulisse Romanò con l’assistenza di Livia Bonetti, le scene di Maria Spazzi, la musica di Gianluca Misiti, le luci di Luna Mariotti e i costumi di Daniela Cernigliaro il racconto di un paese che non cambia, che a tratti non vuole neanche cambiare. Cristallizzato in diversi cicli di rivoluzione che portano sempre allo stesso capolinea, si ripete con costanza, il motto gattopardesco. Un cambiamento sterile, come nella filosofia nietzschiana, in un sistema finito con un tempo infinito ogni evento è potenzialmente già accaduto infinite volte e si ripeterà in futuro sottostando all’eterno ritorno dell’uguale.
di Luna Badawi
PRATO. I teatri sono luoghi meravigliosi. I teatri sono quei posti che abiti per poche ore, ma ti rivelano molto di te stesso. Dove non riesci a trattenere le lacrime, dove ti identifichi con i personaggi da vederti camminare, ridere e urlare insieme a loro. I teatri sono luoghi magici perché a volte ti siedi nelle loro poltrone e ti rivelano il tuo futuro e ti raccontano il tuo passato senza trattenersi nulla. Nei teatri a volte incontri la bocca della verità, ci infili la mano e ti arrivano le domande più intime, più giuste e persino più scomode per te. Nei teatri incontri le tue ambizioni, i tuoi desideri e le tue paure. Dove saresti disposto ad arrivare per realizzare i tuoi sogni? Cosa saresti disposto a fare per arrivare a ciò che desideri? Ma soprattutto, cosa saresti disposto a perdere pur di raggiungere i tuoi obiettivi? Macbeth (al Metastasio di Prato) si rivela così un uomo contemporaneo, una tragedia reale in cui riflettersi e riconoscersi come in uno specchio. Un magma archetipico che vale per tutto il genere umano. Lo spettacolo di Macbeth. Le cose nascoste nasce da una riscrittura della tragedia shakespeariana, da parte del regista Carmelo Rifici insieme ad Angela Dematté e Simona Gonella, con tre Premi Ubu Tindaro Granata, Christian La Rosa e Angelo Di Genio, affiancati da Elena Rivoltini, Leda Kreider, Maria Pilar Pérez Aspa e Alessandro Bandini, che veste i panni degli sventurati figli della tragedia scozzese.
di Simona Priami
FIRENZE. Una scenografia spettrale, volutamente scabra ed estremamente essenziale, dove dominano il bianco, il nero e il grigio, accoglie il pubblico del Cantiere Florida, a Firenze. Ci sono una croce appesa in alto con una lampadina attaccata, una sedia, uno specchio, uno stipite di una porta, oggetti bianchi; lo sfondo e una pistola, invece, sono neri; una luce rappresenta il sole, forte, accecante, alienante. Su questo palcoscenico-cimitero si sviluppa Lo straniero – un funerale, di Francesca Garolla, il monologo di ottanta minuti di Woody Neri, regia di Renzo Martinelli (che si ritaglia una gemma nella rappresentazione), che partendo dal romanzo del famoso filosofo esistenzialista (anche se lo scrittore stesso ha sempre rifiutato questo appellativo) Albert Camus, affronta temi fondamentali quali la morte, l’assurdità e la causalità della condizione umana, la paura alla quale sfugge il controllo del corpo, la sofferenza, il dolore, l’esistenza e l’indifferenza di Dio, i diritti che non sono uguali per tutti. Con la pistola in mano, attraverso una recitazione coinvolgente sia dal punto di vista verbale che fisico, alterna riflessioni filosofiche, ciniche e razionali, flusso di coscienza e monologo interiore. Si pone, inoltre, domande provocatorie senza risposta per il pubblico dal quale cerca il consenso.
di Stefania Sinisi
FIRENZE. Inaspettato e non retorico, L’Attimo Fuggente di Marco Iacommelli si rivela un vero capolavoro, che conquista e appassiona il suo pubblico all’istante. Il merito è tutto dovuto alla freschezza del suo giovanissimo cast, composto da attori che è doveroso citare uno a uno per la loro eclatante capacità di tenerti ancorato al palco, per la complicità e la tensione che da soli creano: Matteo Vignati, Alessio Ruzzante, Matteo Napoletano, Matteo Sangalli, Leonardo Larini, Edoardo Tagliaferri, Alessandra Volpe sono energici, frizzanti, vivi, smaniosi di passione. Tutti giovanissimi e talentuosi interpreti che tracciano uno spaccato di repressione, di scoperta e conquista. La scena è composta esclusivamente da sei sedie nere che i ragazzi fanno girare con un sottofondo di luci colorate e che si contrappongono a un telo bianco, dove le loro ombre e le loro parole echeggiano in ritmo e poesia. Elegante e semplice è anche la musica di sottofondo alla sceneggiatura che ci accompagna verso il vero significato delle parole. Perché la poesia può salvarci? perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione, perché è frutto delle passioni dell’uomo.
PRATO. Mancano, inevitabilmente, un sacco di dettagli, a cominciare dai viaggi/fuga senza meta che Humbert (Francesco Villano), a bordo della sua automobile, fa in lungo e in largo per gli Stati Uniti in compagnia di Lolita (Gaia Masciale), la sua amante/figlia adottiva. E mancano anche gli altri personaggi, fondamentali, sia per lo scrittore Nabokov, che per il regista Kubrick. Quel che resta, della About Lolita al Fabbricone di Prato (si replica sabato alle 19,30 e domenica, 28 novembre, alle 16,30) è un po’ poco - eccezion fatta che per Cara, di Lucio Dalla, quel capolavoro con il quale han deciso di congedarsi - e, contemporaneamente, decisamente troppo, con una miriade di riferimenti che fanno venire in mente quei liceali diplomatisi con il minimo della votazione (e che non sono poi andati all’Università) che, sotto interrogazione di storia, dicono tutto quel che hanno studiato il giorno prima, anche di italiano, filosofia e perché no, pure religione. Nemmeno l’amico/rivale (Andrea Trapani) riesce a innescare un qualsivoglia meccanismo di candida perversione, se non suscitare, durante tutto l’arco della rappresentazione, un cadenzato stridulo vociare da parte di tutti, come se i decibel fossero in grado di rendere l’idea.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Venerdì sera. Un sonnacchioso ammiccare di un fine settimana che apre gli occhi come se fosse la prima volta. Ed è esattamente come se fosse la prima volta che il Piccolo Teatro Mauro Bolognini di Pistoia si lascia guardare sbuffando una luce soffusa da una bocca semi aperta. L’ingresso, silenziosamente incerto e gentile, ci lascia entrare invitandoci ad attendere gli Antichi Maestri della compagnia Lombardi-Tiezzi in collaborazione con Napoli Teatro Festival Italia. La predisposizione langue, la sala non è gremita. Una domanda. E nel dubbio della risposta il corpo si siede. Ciò che si para davanti, sul palco, ha le sopracciglia della sorpresa. La polvere ideale che aveva ricoperto gli Antichi Maestri viene soffiata via da una scenografia da finale aperto. Una contemporaneità che rimanda all’esperimento di Dogville. La scena è scarna, di quello che c’è non manca niente, e d’impatto. Tre enormi cubi luminosi che si allungano per tutto il palco sono i protagonisti momentanei. Spazio e Tempo confinati fisicamente nella quadridimensionalità di un limite. Tre cubi, tre divanetti, cinque quadri e tre uomini scandiranno il tempo di una vita con una sincronia essenziale che farà rabbrividire di piacere. La simmetria creata è la perfezione che ti rimette in pace; come quando dall’esatto centro si riescono a tagliare identiche fette di una torta.
PRATO. Durante la rappresentazione siamo stati colti da reminiscenze universitarie e abbiamo pensato, osservando questa magnifica coppia inglese, agli studi effettuati, poco meno di un secolo fa, dai coniugi Lynd sulla cittadina di Middletown messa sotto lente la d’ingrandimento in una forbice temporale ben definita sull’analisi emotiva, sociale e culturale, nonché economica, effettuata sulla popolazione di quel borgo americano da Robert e Helen. No, certo, Home i’m darling (stasera alle 19,30 3 domani, 21 novembre, alle 17,30 al Teatro Borsi di Prato) racconta del secolare e irrisolto dilemma del rapporto uomo/donna, ma la britannica Lara Wade, prima di scrivere il testo, un’occhiata ai tomi filosofici deve avergliela data. Perché non è casuale che Judy e Johnny (Valentina Valsania e Roberto Turchetta), per provare a non farsi inesorabilmente risucchiare dal progresso e dai suoi innumerevoli e viscidi tentacoli decidano di tornare, correndo e pagando tutti i rischi del caso, a quei favolosi, detestabili, anni ’50, quando il mondo, maschile, decise che l’opera di ricostruzione fosse unico appannaggio degli uomini. Non vogliamo però affrontare l’opera teatrale da un punto di vista sociologico; o meglio, lo si potrebbe anche fare, ma non è questa la circostanza nella quale ci preme dire la nostra. Siamo andati a teatro per vedere teatro e teatro, fortunatamente, abbiamo visto. Quel teatro antico, vero, che ha bisogno di una bella storia e di attori che sappiano presentarla e rappresentarla.
PESCIA (PT). È così difficile provare a ricalcare le orme di due giganti come Paul Newman e Geraldine Page, che forse varrebbe la pena aggiungere qualcosa, onde evitare di finire nell’inesorabile cono dell’impietoso confronto. E invece, per quella discutibilissima legge in voga sulla rilettura dei classici – e La dolce ala della giovinezza lo è, inoppugnabilmente, anche se a teatro non se n’è fatto scempio – a Gabriele Anagni e a Elena Sofia Ricci, il regista, scenografo e costumista Pier Luigi Pizzi ha solo chiesto di fare attenzione al copione. Il resto, la maledizione del fallimento, l’inesorabile caducità della vita, la brevissima durata della giovinezza e tutte le illusioni che si trascina dietro, onnipotenza compresa, sono diventate, da elemento centrale, forza recitativa, corollario. Gabriele Anagni è un gran bel ragazzo, non si discute ed Elena Sofia Ricci, sul viale del tramonto, sembra esserci sempre stata, quasi nata. Ma la scrittura originaria del testo di Tennessee Williams (1952), catapultato a teatro, sette anni dopo, da Elia Kazan e poi, a distanza di due lustri, da Richard Brooks al cinema, contemplava, inesorabilmente, l’inconsolabile dolore del tramonto: della giovinezza, fisica e artistica.
di Stefania Sinisi
FIRENZE. Laura (La Divina), la stessa Laura Morante che siamo abituati a vedere e acclamare al cinema e in tv, vincitrice di un David di Donatello e del Nastro d'argento come miglior recitazione femminile, che vanta diverse collaborazioni internazionali con molte interpretazioni che le hanno permesso di sfoggiare una grande versatilità, distinguendosi tanto per la commedia quanto per opere drammatiche, si è presentata a Firenze, alla Pergola, in prima assoluta, con la sua creatura “Io Sarah, io Tosca”, diretta dall’ex marito Daniele Costantini. Si vede e si sente che dietro a tutto il suo immane lavoro metta spasmodicamente tutta se stessa, anche in questa sua veste teatrale, letteralmente impeccabile, dove indossa gli eleganti e preziosi panni di Sarah Bernhardt, la prima vera diva della storia, che conferì e acquisì la sua fama con la Tosca del celebre Victorien Sardou. Scenografie ricche e sontuose, piene di eleganti contrasti, degni del Teatro la Pergola di Firenze in cui siamo stati amorevolmente viziati dalle scenografie di Gabriele Lavia e di tanti altri grandi autori. Talmente professionale e impeccabile in questa recitazione che la onegirlshow risulta quasi accademica.
di Stefania Sinisi
FIRENZE. Il capoluogo toscano viene teatralmente invaso dai siciliani, che a pochi giorni di distanza si contendono le scene dei teatri, orgogliosamente riaperti e strapieni. Ha esordito Misericordia, nel teatro di Rifredi, con la freschissima e magistrale regia di Emma Dante, riportando un capolavoro indiscusso dei nostri tempi, mostrando una Sicilia forte che scalfisce, con giocosità e poesia, denunce e crude verità. A seguire, al Niccolini, Amore, della Compagnia Scimone/Sframeli, tutt’altro genere di teatro alla siciliana. In scena, due freddi letti tombali, quattro ombre di cipressi neri sul fondo, due coppie, quattro vite ridicolmente intrecciate che comunicano l’un l’altro su un unico e sintetico concetto: l’intimità dell’amore perduto, consumato e ormai sfumato nel ridicolo ricordo di gioventù. L’Amore metaforicamente camuffato, spogliato di ogni sua poesia, si nasconde nei corti dialoghi domestici ironizzati e negli accattivanti silenzi, in ricerca della sua dignità, perché è desideroso di essere liberato. Nel rimpianto, si fa strada tra martellanti ripetizioni e nella più assurda e surreale atmosfera di questo stravagante cimitero.
di Wijdane Boutabaa
PRATO. Non c’è dubbio: nel corso della vita si deve compiere ciò per cui si è nati. Ma la paura può giocare brutti scherzi, e allora si rischia di diventar troppo ragionevoli e prudenti, dimenticandosi degli spiriti e delle passioni con cui eravamo venuti al mondo, diventandogli insensibili. Perciò si deve resistere alla pressione esercitata dai grandi giganti, che marciano coi loro corpi pesanti sulla dura e arida terra e che non pensano, neanche per un secondo, al cielo così vicino alle loro teste. E come al solito, le anime più leggere, ovvero quelle che si fanno trasportare volentieri dal vento, sono anche quelle che con maggiore facilità non vengono sostenute da chi di dovere, costrette così a vagare in un mondo in cui ad avere la meglio è sempre il concreto e la triste ragione produttrice di materialità. E che anzi vengono schiacciate dai piedi pesanti dei giganti, dei direttori generali e di tutti coloro che pian piano, col passare degli anni, finiscono di morire, e quello hanno il coraggio di chiamare vita. In questa realtà, insomma, non c’è spazio per l’arte, se non in decadenti ville confinate ai margini e abbandonate da tutti, in cui si sopravvive solo nel ruolo di poveri cristi falliti e isolati dagli altri.
PRATO. Non conosciamo a menadito la sua lunga produzione artistica, ma se non l’avesse ancora fatto, l’inviteremmo, volentieri, a prendere contatti con il genovese Andrea Ceccon, con il quale, forse, per antiche ragioni legate alle comuni origini del Regno di Sardegna, a nostro avviso, formerebbe una coppia esplosiva. Ma anche da sola, Monica Demuru, con la sola assistenza di qualche modesta base musicale e la sua voce polifonica, che si adatta, maledettamente bene, a quel viso di cui non si ha sentore se stia andando o ritornando, fa la sua porca, esilarante, meravigliosa figura. Lo diciamo anche se potremmo dubitare della sua febbrile ricerca, quella che le ha suggerito di raccogliere, nel mondo del web, del tubo catodico, ma soprattutto delle esperienze personali attinte, quotidianamente, grazie solo alla facoltà di esistere e di farlo con attenzione, alcuni frammenti indigeni di tre realtà geografiche ben definite: Roma, Prato e Cagliari, per formarne una piccola, esaustiva Encyclopédie de la Parole, dalla quale è nato, con la regia di Joris Lacoste, Jukebox, al Magnolfi di Prato, ancora stasera, alle 19,30 e domani, 7 novembre, alle 16,30.
di Wijdane Boutabaa
PRATO. Dante Puzzle è in pratica una cena, una serie di piccole portate da gustare una alla volta per restare leggeri e avere spazio ancora per altro. La leggerezza intesa in senso calviniano, non come superficialità, ma come un planare sulle cose dall'alto, senza avere macigni sul cuore né tantomeno sullo stomaco. Con Dante Puzzle si chiude l'edizione 2021 de Gli Amici del Borsi e allo stesso tempo si porge un omaggio alla stagione del 2022, che riparte con una vasta carrellata di spettacoli e Dante Puzzle non è che un piccolo assaggio di ognuno di questi. La prima portata è un classico, e come la pizza margherita, non può non piacere. La lettura del primo dei canti dell’Inferno dantesco, magnificamente eseguito da Daniele Griggio, che riesce a portarti, e senza sforzo alcuno, su quello stesso cammino oscuro e aspro che tutti conosciamo molto bene, immergendosi insieme a te nel caldo e nel freddo delle parole straordinariamente messe insieme. Come secondo, invece, ci viene proposto uno spettacolo di danza, con l’esibirsi di tre ragazze di KAOS Balletto di Firenze, affiancate da tre coreografi, che insieme ci mostrano come si scrive un racconto col proprio corpo e senza bisogno di altri supporti fisici.
PRATO. La scommessa del Metastasio, iniziata la scorsa settimana con L’armata Brancaleone di Roberto Latini, prosegue, senza soluzione di continuità. Stavolta, l’ideale è lasciarsi trasportare dalle suggestioni; così si pensa alle interminabili mosse senesi del Palio, o anche ai documentari, della migliore tradizione televisiva, dove una telecamera nascosta spia, per giorno e notte, branchi di lupi, civette, serpenti velenosi, animali con cromatismi carioca, volatili possenti e tenebrosi, fiere fameliche, un regno dove l’uomo, se non di soppiatto, non può avere accesso, soprattutto perché non è affatto gradito. Tutte queste evocazioni – ma qualcuno può averne avute altre, eh, ci mancherebbe! - la suggeriscono Chiara Lucisano, Caterina Montanari, Daniele Palmeri e Michele Scappa, che sono i corpi, le voci, le anime e in particolare i suggestivi suoni gutturali sui quali Kinkaleri ha progettato e prodotto il suo OtellO (scritto così, poi ci spieghiamo), in prima nazionale (anche stasera, alle 19,30 e domani, 31 ottobre, alle 16,45) al Fabbricone di Prato. Che i quattro acrobatici danzattori stiano riesumando la tragedia di William Shakespeare non c’è dubbio; non c’è dubbio perché raccontano dei tormenti di Otello, dell’infidia di Iago, della scaltrezza di Cassio e del martirio di Desdemona, tutto però inscritto all’interno delle due O maiuscole, che segnano l’inizio e la fine di OtellO e che racchiudono tell, che in inglese vuol dire raccontare, informare, dire, riconoscere.
PRATO. Chi inizia provocando è a metà dell’opera. Il Metastasio di Prato, che riapre finalmente i battenti quasi come se la pandemia non fosse mai esistita, si (ri)presenta al suo pubblico con un’omonima rivisitazione teatrale di una pellicola che ha fatto scuola e, il tempo lo dirà; anzi, lo ha già detto, leggenda: L’armata Brancaleone. Il profanatore di turno, l’adattatore, non poteva essere che Roberto Latini, che si ritaglia una gemma, su un palcoscenico psichedelico/postindustriale, a fianco di un’eterogenea compagnia attoriale di grande rispetto, febbrilmente incastonati l’uno sull’altro, sospesi su una trave sulla quale si ristorano durante una vertiginosa pausa/pranzo nel bel mezzo della ristrutturazione del grattacielo di Mario Monicelli: Elena Bucci, Claudia Marsicano, Ciro Masella, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Marco Sgrosso e Marco Vergani. Le vicende, indecorose e tragicomiche, del cavaliere norcino alla guida di un ronzino insolente e svogliato a capo di un’impresentabile armata alla conquista del feudo pugliese di Aurocastro, sono e saranno icone indimenticabili e scimmiottate ovunque in parecchie sale cinematografiche.
FIRENZE. Di quei due, si sapeva già tutto: poliedrici, camaleontici, sensuali, ironici, impeccabilmente disordinati. Si strizzano l’occhio da oltre vent’anni, Filippo Timi e Lucia Mascino e appena possono, si danno appuntamento su un palcoscenico, anche se in compagnia di altri colleghi. Loro due, da soli, insieme, li avevamo già visti, qualche tempo fa (luglio 2019), a Peccioli, ne Il piccolo principe, ma si trattava di un reading, che equivale, a nostro avviso, alle formazioni musicali che si specializzano nei tributi. Con Promenade de santé, scritto contorsionistico di Nicolas Bedos, tradotto da Monica Capuani, trasportato sul teatro, anche se con angolature spudoratamente cinematografiche, da Giuseppe Picconi, al Niccolini di Firenze ancora stasera e domani, giovedì 21 ottobre, sempre alle 19,30, la coppia (di fatto) ha raggiunto una simbiosi empatica di rara bellezza: si scrutano, lusingano, disprezzano, desiderano, posseggono, si amano, rispettandosi, senza mai perdere di vista che il loro amore, l’amore, è, indiscutibilmente, tossico, necessario, indispensabile, ma tossico, come tutti i contratti sentimentali, tanto che per dichiararsi ha bisogno di essere rinchiuso in una clinica specialistica, lontano da ogni distrazione e tentazione, particolarmente persuasiva, inoltre, visto che si tratta di una struttura immersa nel verde, dove ci sono due panchine, luogo privilegiato di incontri tra pazienti, eterosessuali, di entrambi i sessi.
di Wijdane Boutabaa
SCANDICCI (FI). È il 24 settembre e sul palco del Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci ci sono solo una tenda, due sedie e due persone che interpretano ben quattro personaggi. Saverio La Ruina, regista e attore, prende le vesti di Mario, un italianissimo vedevo che a causa di un terremoto, vede casa sua, che, come molte case altrettanto italianissime, era appartenuta prima a suo padre e ancor prima a suo nonno, tramutarsi in macerie e polvere. Mentre Chadli Aloui, interprete dalle origini nordafricane, deve immedesimarsi in un suo connazionale, Saleh, come Mario vittima del sisma, e col quale dovrà condividere il poco spazio circoscritto da una tenda bianca. All’inizio, ci si siede e si inizia a guardare questa precisa rappresentazione di una storia frutto della mente del regista. D’un tratto e senza soluzione di continuità, ci si trova però catapultati nella vita vera degli attori-persone che prendono il posto delle maschere di scena. La rappresentazione diventa un tentativo da parte di Saverio La Ruina di dar letteralmente voce a una minoranza, che in quanto tale trova sempre le più grandi difficoltà a farsi intendere. E così gira il riflettore sull’attore Chadli, lasciandogli tutto lo spazio per dire la sua su una questione che lo riguarda tanto da vicino e da tutta una vita.
di Letizia Lupino
PISTOIA. È in un martedì sera di fine estate che la Fondazione Jorio Vivarelli a Villa Stonorov di Pistoia e SpaziAperti2021 ci accompagnano verso la chiusa di una strana stagione teatrale che odora di rinascita e di respiri ampi. Il vialetto che favorisce l’ingresso al piccolo cancello a poco a poco si riempie di macchine. Parlottii e brusii che si avvicinano porgendo la fronte e lasciandosi misurare la febbre? L’attesa. Tutti ben allineati attendiamo di scendere in quel piccolo labirinto di magia che si aprirà sullo spazio scenico adibito per l’occasione. Sedie a giri concentrici che lasciano il centro aperto, un vuoto da riempire; il palco è dietro, a riposo. Su ogni sedia un foglio e un lapis: è già spettacolo. Siamo pronti. Luigi De Angelis, il regista, insieme alla drammaturgia di Chiara Lagani partendo dai documenti audio e video delle teche Rai hanno fatto sì che Andrea Argentieri riuscisse a interpretare Primo Levi, quasi come un sarto certosino con il suo primo abito maschile; e a confezionare poi Se questo è Levi. I sommersi e i salvati. Il passo misurato e preciso di Argentieri si fa largo nel suo centro.
di Federico Di Pietro
PISTOIA. Per tutta l’estate ho (abbiamo, sic!) esultato agli insperati e inattesi risultati sportivi che gli atleti e calciatori azzurri hanno conseguito, prima vincendo un Europeo, poi raggiungendo un record storico di medaglie a Tokyo e infine dominando alle paraolimpiadi. Eppure, mancava qualcosa. Le vittorie erano belle, decise, disperate, ma sospettosamente vuote, destinate a consumarsi nel giro di qualche mese e qualche chiacchiera da bar. C’era agonismo, cattiveria, ma mancava qualcosa. Ieri sera, alla Fortezza Santa Barbara ho finalmente capito di cosa avevo bisogno in questo periodo. Volevo un po’ di sacralità. La devozione più ardente a una causa. E quella causa l’ho trovata battagliando e votando durante La coppa del Santo, il nuovo spettacolo de Gli Omini, pluripremiata e popolare compagnia toscana, che Pistoia ormai conosce bene. I santi si sa, non muoiono mai e hanno più vite dei gatti (che sempre troppe sono). Lo spettacolo, in realtà, fa parte di una progenie artistica più ricercata e studiata. La coppa del Santo è la necessaria rivisitazione in tempi di pandemia della pièce L’asta del santo, un mercante in fiera sulla vita dei santi in cui il pubblico si strappava le vesti e si scambiava aneliti batterici per vincere uno dei premi in palio. La coppa del Santo però è altro. È strategia, è devozione vera.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Fa notte quasi improvvisamente; inaspettato in questa sera fresca che incalza e precede. Lui attende. La Fortezza Santa Barbara si fa nuovamente chioccia di un nuovo spettacolo, Teatri di Pistoia con SpaziAperti2021 ci invita nel Paradiso. Dalle tenebre alla luce, di e con Simone Cristicchi. Il palco è carico; a destra una scrivania con tutti i crismi che ci si aspetterebbe: una lampada, libri che solo un misurato caso potrebbe aver sistemato; dei fogli, una penna e l’atmosfera che rimanda è quella di un fumoso studio dell’800; immagino il sigaro che mal si trattiene dallo spegnersi. Poco dietro, imponente, un’arpa svetta e squaderna l’ingresso all’OIDA, l’Orchestra Instabile di Arezzo, guidata da Valter Sivilotti e che sarà l’accompagnamento terreno e spirituale della storia che ci verrà raccontata. Simone Cristicchi, cantautore, attore teatrale, paroliere immaginifico intreccia musica, immagini, parole. Costruisce. I commenti in platea si perdono, il tutto esaurito esaurisce il fiato che sospeso si aggancia quando ai violini, ai contrabbassi, quando alle trombe o ai fagotti.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Un sabato sera di luglio come tanti, una serata afosa nel pieno dell’estate, il polo museale della Fortezza Santa Barbara di Pistoia pronto ad accoglierci, l’arco di pietra aperto, la porta spalancata. Avanziamo lungo il ponte; qui, un tempo, cavalieri e dame, vite che attraversavano l’immobilità della sostanza, ieri come oggi. La corte si para davanti, le sedie, il palco, Teatri di Pistoia, Spaziaperti 2021 ci prende e ci fa accomodare in attesa, una leggera brezza ci ammorbidisce il corpo, la testa è attenta. Monica Guerritore sale sul proscenio con la naturalezza di colei della quale si dice che potrebbe guidare ad occhi chiusi e ci mette, perciò, a nostro agio, ci guida, è un piacere per gli occhi, poi lo sarà anche per le orecchie quando il tecnico le accenderà il microfono; è un luglio pandemico che ci inciampa, rendendoci tutti un po’ più umani, teneramente fallibili. Dall’Inferno all’Infinito è un discorso dell’intima necessità di scandagliare attraverso i grandi, Dante, Pasolini, Morante, Eco e Galimberti le anse dense, profonde e immaginifiche dell’animo umano. È la volontà di scardinare i versi, parole al microscopio che vivono di sfumature nuove, luminose. Sorprendente la visione, il corpo dell’attrice che si accascia sulle travi del palco, l’animo umano che sprofonda; l’onda creativa dell’immaginazione che ne scaturisce è potente, ci coglie impreparati, perché impreparati siamo alle virate dell’anima.
PISTOIA. Non ha neanche un nome. E non si capisce nemmeno quanti anni abbia. La vita non le ha insegnato molto e quel poco che ha imparato, non sempre è riuscita a metterlo in pratica. Se fosse dipeso soltanto da lei, però, la mattina si sarebbe alzata sempre di buon’ora; al mercato si trova la frutta migliore e sul mare ci si posiziona vicino alla battigia. La sua esistenza è un rimpianto soffuso, a malapena accennato. Si è accontentata di avere un marito, Sergio, che in definitiva, a parte non averla mai portata nelle Marche, non le ha mai fatto mancare nulla, soprattutto perché è riuscito a non farle desiderare niente. Francesca Sarteanesi, dopo aver lasciato Gli Omini e tutto quello che le girava intorno, ha deciso di ripresentarsi sul palcoscenico da sola, senza scenografia alcuna, senza nemmeno una sedia, in un colloquio triste e violento, senza via d’uscita, monniano, ma ingentilito da una rassegnazione che ne esalta la surrealtà attoriale. È lì, da sola, ma solo per le prime battute. Poi si dissolve, uscendo di scena, senza che gli spettatori se ne accorgano, lasciando a tu per tu con il pubblico proprio Sergio, che non c’è, non si vede, ma si sente, si è sentito e si sentirà. Per sempre.
PISTOIA. Ognuno ha fatto come meglio ha potuto. La prima quarantena forzata e forzosa della storia dell’umanità tutta (teniamola a mente; non è detto che non si ripeta) ha generato, oltre che (im)motivate paure incontrollabili, anche una serie di impensabili anticorpi. Durante quegli interminabili cinquantanove giorni di totale isolamento, Alessandro Benvenuti ne ha approfittato per continuare a fare quello che gli riesce meglio: gigioneggiare. Panico ma rosa, diario di un intubabile, alla Fortezza Santa Barbara di Pistoia (si replica stasera, alle 21,15) sono gli appunti presi da un veterano dello spettacolo nella sua abitazione romana, dove vive con moglie e figli e portati in scena in attesa che il teatro e il mondo dello spettacolo si rimetta davvero in moto. E visto che lezioni di come stare sul palcoscenico l’ultra settantenne fiorentino (dopo mezzo secolo trascorso tra la televisione, il cinema, il teatro e il cabaret) può non prenderle da nessuno e darle, brocciolare lo stupore da dove vengano quegli imbecilli dei 33 trentini che trotterellano su Trento e da lì seguire un filo conduttore di nonsenso fino alla liberazione è puramente un gradevole e simpatico esercizio per come mantenersi in forma.
PRATO. In questo ultimo mezzo secolo, nonostante guerre mondiali non ne siano scoppiate (e infatti la popolazione è passata da 2 miliardi a circa 8; la povertà diffusa non è bastata a fermare il formicaio umano), il mondo si è trasformato come se invece di cinquant’anni ne fossero trascorsi mille. La grande abbuffata, memorabile, insolente e preveggente pellicola del 1973, resta una meravigliosa decadente intuizione culturale alla quale il regista Michele Sinisi e il drammaturgo Francesco Maria Asselta, che si sono messi all’anima di riadattarla per il teatro, non sono riusciti a prolungarne l’esistenza, provando a trasformarla in un altro capo d’accusa. Peccato, perché i presupposti, senza rinverdire i fasti mnemonici delle interpretazioni di Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi (la coppia francese non la citiamo, di proposito), ci sarebbero potuti essere, soprattutto tenendo nella debita considerazione che Elsinor e Teatro Metastasio, che hanno prodotto lo spettacolo in scena al Fabbricone di Prato (si replica oggi, alle 20 e domani, domenica 20 giugno, alle 18), a spese scenografiche non han badato (una videoinstallazione, una tazza del cesso che erutta lapilli, lava, bamba e rifiuti tossici, una Vespa Piaggio simbolo dell’unisex e tre armadietti illuminati adattabili a privé dei peggior night) e anche per assoldare lo staff attoriale, rischi ne han corsi pochi.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Estate 1989, estate 1989, estate 1989. Un ripetuto rintocco che come un mantra ci ferma lo sguardo e ci fa balzare subito indietro più di trent’anni. Questo è l’inizio, o meglio, le battute successive dello spettacolo andato in scena al Funaro di Pistoia: Santabriganti presenta Kriptonite. Scena scarna, se non fosse per il microfono ben piantato al centro, una bottiglietta d’acqua sulla destra; che già ci fa presagire qualcosa, quantomeno una sensazione, una cassa audio sulla sinistra e poco dietro un lampeggiante. Buio in sala, voci dall’alto cadenzano l’inizio, un’accorata preoccupazione ci prepara, il lampeggiante inizia a girare. In punta di piedi, come un ninja un po’ imbranato, Peppe Macauda fa proprio il microfono, morbidamente la scena diventa sua; si abbassa il cappuccio della felpa rossa e comincia la risalita di quell’incredibile estate di fine anni ottanta. È un viaggio intimista, e neanche troppo, di un ragazzino/eroe che con l’innocenza e l’arroganza degli assolutismi di quell’età tenta di affacciarsi al mondo, ormai seme schiuso, e di combattere la Kriptonite quotidiana, gli stronzi quotidiani.
PRATO. Lo stesso identico senso di spossatezza e inadeguatezza lo provammo nove anni fa, quando uscimmo dalla sala cinematografica dove avevamo visto Pietà, di Kim Ki-duk. La differenza, non da poco, è che ieri sera, al teatro Metastasio di Prato (si replica stasera, alle 20 e domani, 6 giugno, alle 16), al termine di Misericordia di Emma Dante, la rabbia, l’adrenalina e la nostra pietà abbiamo potuto cibarle immediatamente, alzandoci in piedi e sotterrando di applausi Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi, Anna, Nuzza e Bettina, veterane di lungo corso della Compagnia Sud Costa Occidentale, testimoni oculari, complici impotenti, dell’assassinio di Lucia la zoppa, massacrata e uccisa di botte da Geppetto, il marito falegname, senza però riuscire a impedirle di mettere al mondo, prematuramente, Simone Zambelli, Arturo, che è un pinocchio senza tempo, che nasce duro, legnoso e senza anima, ma che diventa morbido e adulto, che riesce a dire mamma, aiutato a diventare un uomo di rara grazia e fisicità, seppur nella sua disabilità, dalle lezione impartitegli, chissaddove, da Pina Bausch.
di Letizia Lupino
BORGO A BUGGIANO (PT). Il Teatro Buonalaprima a Borgo a Buggiano ospita, dopo più di un anno di stop, la cooperativa sociale di Napoli Il tappeto di Iqbal, che insieme a Transiti e Ultimo Teatro di Montecatini Terme, hanno progettato un percorso portato nelle scuole fatto di laboratori, cortometraggi, interviste, giochi, risate e inclusione, con lo scopo di affrontare un tema di cui mai si parla abbastanza, la mafia; la camorra nel caso specifico. Clownville è uno spaccato della vita del quartiere di Barra; personaggi/protagonisti (in ordine alfabetico: Alex Andolfo, Antonio Bosso, Pietro Esposito, Francesco Gentile, Enzo Gilardi, Ciro Grimaldi, Antonio Pirillo, Michelangelo Ravone, Marco Riccio e Giovanni Savino) sul palco, così come nella vita, questi giovani ragazzi hanno la sfida negli occhi, la grinta nelle mani e la fierezza nel corpo. Sono il quartiere di Barra fatto carne e ce lo donano con crudezza, senza fronzoli; sentiamo il sangue colare, attraverso gli artifici delle arti in genere, sono circensi, acrobati, cantanti, mimi, tecnici. Hanno saputo, e imparato ad esser, tutto e ce lo dimostrano usando un’arma magistralmente letale: il sorriso.
PRATO. L’augurio, soprattutto per loro, Elvira Frosini e Daniele Timpano, stavolta non da soli, ma con Marco Cavalcoli, è che Ottantanove, in prima nazionale al Fabbricone di Prato (si replica alle 20, fino a domenica 30 maggio, alle 18), non lo veda Franceschini e il suo entourage, perché se qualcuno glielo dovesse spiegare, lo censurano. È un comizio di sinistra, lo spettacolo, ma di quella sinistra abbandonata in favore dei salotti e dunque, incomprensibile per chi è restato ad aspettare il condottiero, l'inserruzionista, Masaniello; alla massa, che ignora la storia e le sue vicissitudini e a chi avrebbe dovuto studiarla, ma che l’ha debitamente dimenticata. Prodotto dal Metastasio, in collaborazione con Kataklisma Teatro e Teatro di Roma – Teatro Nazionale, la rappresentazione oscilla tra due secoli, circoscritti in due annate, particolarmente feconde, decisive, per alcuni versi letali: il 1789 e il 1989. La Rivoluzione francese e la caduta del Muro di Berlino, due momenti epocali, preceduti, condivisi e suggellati da una serie di vicissitudini che hanno sempre più il sapore di una gigantesca macchinazione che ha minato la storia, la politica, la società, la famiglia e da ultimo, ma non ultimo, l’uomo.
di Francesca Infante
PRATO. Overture. Campi di cotone e schiavi che lavorano. Musica leggera, romantica. Bambini ridotti in schiavitù. Una ragazza borghese frivola e viziata. Leggerezza contornata dallo schiavismo. Tutto regolare, è solo l'inizio di Via col Vento. Ambientato in Georgia nel 1861 alla vigilia della guerra civile americana, pieno di personaggi associati al Ku Klux Klan e favorevoli allo schiavismo, Via col Vento è considerato un grande classico del cinema Americano, amatissimo dal pubblico. Ma la nascita di questo film, che nel 1939 ha vinto ben dieci Oscar, è molto più che epica. Un badget altissimo, due registi e svariati sceneggiatori con l'unico intento di scrivere un film che poteva essere il più grande fallimento della storia del cinema. Solo una persona, innamorata del libro di Margaret Mitchell, guidava all'impresa, quasi impossibile, della stesura di Via col Vento: David O. Selznick. È andato in scena (si replica fino a domani, ore 18) sul palco del Teatro Metastasio di Prato, Domani è un altro giorno, scritto da Ron Hutchinson, con la regia di Alessandro Averone, anche attore insieme a Caterina Gramaglia, Gabriele Sabatini, Antonio Tintis. Ron Hutchinson, pluripremiato autore irlandese di teatro e cinema, prende spunto da una vicenda realmente accaduta e con sapiente maestria ci consegna una commedia dai ritmi vorticosi e con una dinamica pressoché perfetta. 1939 David O. Selznick, produttore hollywoodiano, dopo due anni di lavoro e le prime cinque settimane di riprese, blocca il set del più grande kolossal che si sia mai realizzato: Via col vento.
di Francesca Infante
PISTOIA. Sorrisi azzurri, coperti ma presenti. Fervore nell'aria. Emozione e gioia di tornare a sedere su quelle poltroncine di velluto rosso, spettatrici perpetue di spettacoli mai andati in scena, rimaste sole per tanto – troppo- tempo. Il teatro, signora anziana, forse un po' sola e triste ultimamente, torna ad indossare le sue vesti vellutate. Riparte lo spettacolo dal vivo. È andato in scena sul palcoscenico del Teatro Manzoni di Pistoia (sabato 15 e domenica 16 maggio), Furore, tratto dal romanzo di John Steinbeck, ideato e realizzato da Massimo Popolizio. Il capolavoro della letteratura americana del secolo scorso vede l'adattamento per il teatro firmato da Emanuele Trevi e la presenza del percussionista Giovanni Lo Cascio ad accompagnare la voce dell'attore; coprodotto dalla Compagnia Umberto Orsini e dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale. Nell’estate del 1936, il San Francisco News chiese a John Steinbeck di indagare sulle condizioni di vita dei braccianti sospinti in California dalle regioni centrali degli Stati Uniti, soprattutto dall’Oklahoma e dall’Arkansas, a causa delle terribili tempeste di sabbia e dalla conseguente siccità che avevano reso sterili quelle terre coltivate a cotone. Il risultato di quell’indagine fu una serie di articoli da cui l'autore americano generò, tre anni dopo, nel 1939, il romanzo Furore.
PRATO. La felicità si taglia con il coltello, anche se le avverse condizioni climatiche non favoriscono particolari euforie e costringono gli spettatori, onde evitare sferzate gelide di vento e gocce obliqui di pioggia, ad accalcarsi nel foyer, seppur muniti tutti, anche i personaggi cromaticamente più assortiti, di mascherine, qualcuno addirittura doppia. Però, dopo tanti mesi di silenzio, paura, sconforto e desolazione, ci ritroviamo all’ingresso del Fabbricone, a Prato, perché lo spettacolo, Le nozze (si replica tutte le sere alle 19, fino a domenica 16 maggio, alle 18), va a incominciare. Dei personaggi dell’originale stesura cechoviana, il regista, Claudio Morganti, abituato a farsi beffa di tutto e tutti, conserva a stento i nomi sovietici, soprassedendo su tutto il resto, soprattutto quel che riguarda la bassezza borghese di fine ‘800, che nella sua personale rivisitazione prende la forma di una satira arboriana, catapultando la rappresentazione teatrale nella mitica televisiva Altra Domenica, con il polistrumentista e polifonico Roberto Otto & Barnelli Abbiati in qualità di sovversiva colonna sonora e il pasticcere greco, con un marcato influsso ciociaro, Luca Andy Luotto Zacchini, supportati, sullo sfondo muto, ma non per questo meno efficace, da Ilaria Francesca Marchianò, cameriera pasoliniana, ma anche un po’ keatoniana.
di Beatrice Beneforti
PRATO. Dovremmo partire dal finale per provare a far capire quello che abbiamo compreso guardando Don Juan al Teatro Metastasio di Prato (si replica tutte le sere alle 19, fino a domenica 10 maggio, alle 18) che riapre i battenti dopo questa estenuante pandemia virale, ma non si può. La trama si capiva bene (fa parte degli annali), ai limiti dello scontato, fino al finale, che non possiamo svelare. I danzatori protagonisti, sedici in tutto, di AterBalletto, per la coreografia di Johan Inger su una partitura originale di Marc Alvarez, non erano tutti giovanissimi, specialmente lui, il Don Giovanni. Le luci, all’inizio dello spettacolo, erano poco convincenti: lasciavano delle scene in ombra, ma poi c’è stata una citazione di Stanley Kubrick (precisamente quando, in Barry Lyndon, a un certo punto, il regista usa luci calde e fredde nella stessa inquadratura per farci sentire che qualcosa è in contrasto) che ci ha convinti. La musica non ci è piaciuta sempre: a tratti troppo da cinema anziché da teatro, ma funzionava alla perfezione, visto il gradimento collettivo degli spettatori, che hanno riempito, nel febbrile rispetto delle norme anti-Covid, tutti gli spazi disponibili dello storico teatro pratese. Non ci sono piaciuti, nella rappresentazione, i costumi, che abbiamo trovato bruttini.
di Fabiana Bartuccelli
NAPOLI. Periferia Est. Un campo di vite, aperte su una terra violentata. La vita si espone comunque, non cede, soprattutto gli steli verdi, la creta viva da plasmare oltre il deserto e i muri della violenza. Dov’è la mappa che conduce all’uscita, dove il bosco del guaritore? Sempre dopo i rovi, forse nelle crepe. Barra non è un luogo. Barra è il prodotto del mondo che ha scelto di perdere il fuoco attorno al quale si nutre e si tramanda la vita. Ma quanti volti ha il fuoco. E quante mani. Un unico indistruttibile riso. E nel petto di questo quartiere si infiamma un ridere, quel moto trasversale che nel moto distruttivo di una storia senza fuoco riaccende un faro, ricrea un territorio, disegna una mappa per surfare il vuoto, si riprende lo spazio e risemina un tempo condiviso. Sono i ragazzi della cooperativa sociale Il tappeto di Iqbal, i messaggeri che tessono un ponte tra una fine e un inizio, gli anticorpi al male che avvelena il latte delle sempre attente e tornanti primavere. Ricominciare è un’attenzione. Sentire che è arrivato il tempo di arrivare. Quel non poterne fare a meno.
di Olimpia Capitano
LIVORNO. Domenica sera, al teatro Goldoni, si è conclusa la rassegna teatrale promossa dal Nuovo Teatro delle commedie, il Little Bit Festival, alla sua X edizione. Lo spettacolo conclusivo andato in scena èsstato il pluripremiato Macbettu, tratto dal Macbeth di William Shakespeare, ideato e diretto da Alessandro Serra (interpreti: Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino; traduzione in sardo e consulenza linguistica: Giovanni Carroni; collaborazione ai movimenti di scena: Chiara Michelini; musiche: pietre sonore Pinuccio Sciola; composizioni pietre sonore: Marcellino Garau; tecnico della luce e Direzione Tecnica: Stefano Bardelli; tecnico del suono: Giorgia Mascia; regia, scene, luci, costumi: Alessandro Serra; produzione: Sardegna Teatro, in collaborazione con compagnia Teatropersona; distribuzione: Danilo Soddu; con il sostegno di: Fondazione Pinuccio Sciola e Cedac Circuito Regionale Sardegna). Se già la pièce, visionaria e coinvolgente di per sé, ha creato un’atmosfera densa e immersiva, il contesto non è stato da meno: durante l’ultima sera in cui, almeno per un mese, è stato possibile condividere lo spazio aperto del teatro, l’intensità emotiva è stata trasversale, segnando nello stesso atto della partecipazione l’importanza di un momento empatico e corale, che i 4 minuti di applausi finali non hanno fatto altro che confermare.
di Luna Badawi
PRATO. Un venerdì sera qualunque di una pandemia oramai cominciata diversi mesi fa. Tutti armati di mascherina, disinfettante e distanziamento, ma non sono le uniche cose che ci portiamo dentro la sala del teatro, il Magnolfi, di Prato. La verità è che siamo la somma di tante vite vissute fino ad oggi, incontrati per caso (ma tanto il caso non esiste) in un’unica stanza, insieme alle nostre maschere esteriori e interiori, le nostre fragilità, le nostre paure, il nostro senso di colpa e il nostro timore di cambiare. Ci siamo incontrati per caso (ma tanto il caso non esiste) per sentire parlare della vita. Lo spettacolo di Amor Vacui, scritto in condivisione da Lorenzo Maragoni, Andrea Bellacicco, Eleonora Panizzo e Michele Ruol e interpretato con sincera emozione e bravura teatrale da parte di Andrea Bellacicco ed Eleonora Panizzo, pone al centro il tema del come si vive con sé stessi. Una persona può passare la sua vita a fare lo stesso lavoro, stare nella stessa relazione, vivere nella stessa città, senza mai farsi domande.
di Stefania Sinisi
LASTRA A SIGNA (FI). Non è un bollettino meteo, ma del degrado, Previsioni del tempo, di Patrizia Corti, in scena al Teatro delle Arti di Lastra a Signa. Perché anche qui, sull’Appennino Tosco-Emiliano, lontani centinaia di chilometri dal nocciolo della fusione criminale, c’è del marcio, proprio come in Scandinavia. I riflettori si accendono su un sistema corrotto che vive e si arricchisce segretamente e trasversalmente di illeciti e di attività illegali di tipo mafioso, che arrecano danni all'ambiente. In particolare, si parla di associazioni criminali dedite al traffico e allo smaltimento illegale dei rifiuti, che contrabbandano in clandestino anche carni di provenienza ignota, destinate ai grandi rivenditori senza nessun controllo sanitario di qualità. Narrato con cura da un frizzante ed energico Marco Natalucci e accompagnato musicalmente dal vivo da Francesco Giorgi, in un esperimento teatrale associativo, quasi un radioteatro, un percorso di suoni e percezioni oscure, sotto una pioggia nera e fitta, Previsioni del tempo è il viaggio di due malavitosi, Antonio e Giuliano, che devono compiere la loro mala azione quotidiana.
di Alessandra Pagliai
FIRENZE. L’incontro nasce nella logica di Fies Factory: connettere giovani professionisti e artisti col progetto di avere un percorso creativo fuori da invasive leggi di mercato. Teatro Cantiere Florida contingentato come da DPCM, gli spettatori con mascherina, così come gli artisti, che citano parole interrogando la socio-linguista Vera Gheno, docente dell’Università di Firenze, oltre che traduttrice e branditrice di vocabolari. Fratelli d’Italiano, sembra dire Claudio Cirri, che aprendo le danze mima un simpatico Inno di Mameli, mentre arrivano sul palco i compari di Teatro Sotterraneo, Sara Bonaventura e Daniele Villa con la ex collaboratrice della nobile Accademia della Crusca, Vera Gheno. Ah! la parola, atto di identità di un popolo, di una regione, di una città, di un quartiere, pronunciando la quale ci riconosciamo in una tribù, foss’anche quella del web, media non demonizzato dall’esperta di lemmi. Perché, dice, il linguaggio contemporaneo in qualsiasi epoca si imbastardisce fino a diventare la lingua in corso, vedi il volgare che nasce nel Medioevo.
di Stefania Sinisi
SESTO FIORENTINO (FI). Sul palco del Teatro La Limonaia di Sesto fiorentino, in prima assoluta all’interno del Progetto Intercity è andata in scena Dalle Stelle (drammaturgia di Silvia Calamai e regia di Fabio Mascagni), una rappresentazione quanto mai surreale, ma drammaticamente realistica, di due anziani, Zinni e Axxo (Antonio Fazzini e Annibale Pavone) che ci condurranno all’interno di un interessante dialogo, in cui l’uso della parola è sempre assolutamente ponderato e mai superfluo; a parlare sono due luminari della Scienza. Di fronte alla non necessità, è preferibile il silenzio, con una valenza ritmica che tende a esaltare e oltrepassare la dimensione della realtà in un'atmosfera tale così assurda e inverosimile che inizialmente non ci fa calare nel vero contesto dell’inevitabile declino delle facoltà mentali: l’Alzheimer, malattia sufficientemente grave da interferire con la vita quotidiana dei due protagonisti, che ci tengono sospesi con leggerezza e sempre con il sorriso sulle labbra al confine tra realtà e irrealtà, Dalle stelle appunto, come a voler dire che i due uomini sono a metà tra cielo e terra, stralunati, in una dimensione abnorme, ma apparentemente normale.
di Stefania Sinisi
SESTO FIORENTINO (FI). Enrica Pecchioli e Giulio Mayer, interpreti e narratori sensibili di un’Italia scomparsa attraverso le fiabe popolari, rielaborano e ripercorrono le storie più famose della nostra tradizione con la delicatezza e la mimica dei poeti ambulanti, che non scomparirono affatto, ma che restarono per secoli nascosti nelle strade e nelle piazze di città e villaggi, cantando canzoni originali, rielaborando e diffondendo leggende, esaltando luoghi santi e personaggi eroici, ma oggi dimenticati e sorpassati dalle moderne tecnologie e nuove attrazioni. Per questo al Teatro La Limonaia di Sesto fiorentino, all’interno del Progetto Intercity Young, è andato in scena Italia in Fabula (regia e drammaturgia Enrica Pecchioli, in compagnia, sul palco, di Giulio Mayer e con le scene, le luci e i costumi affidati a Francesca Leoni), con il preciso intento di voler valorizzare, rivolgendosi a un pubblico giovanissimo, conoscenza e narrazione in modo originale, diverso, immedesimandosi nei personaggi così che i due attori reciteranno divertendosi e divertendo sia grandi che piccini trasportando gli spettatori in mondi incantati.
FIRENZE. Non sappiamo se nelle corde di Luisa Bosi e Francesca Sarteanesi ci sia stato, o ci fosse, in origine, nell’ideare e portare in scena Bella Bestia, la volontà sottesa di navigare introspettivamente tra i meandri, i più reconditi, dell’universo umano in generale, e nello specifico, femminile. A noi, ieri sera, al Teatro Cantiere Florida di Firenze, per l’unica replica dello spettacolo prodotto da Officine della cultura con il contributo della Regione Toscana e il sostegno del Centro di Residenza Armunia Capotrave/Kilowatt, questo secondo eventuale e virtuale livello ci è sfuggito del tutto. E per fortuna. Perché ci siamo divertiti tanto. Sì, certo, sono le risate tristi prodotte dalla goffaggine della migliore scuola clownesca, è la simpatia che scaturisce da conversazioni surreali perché inesistenti, è l’ilarità digrignata a mandibole serrate di un turpiloquio abortito grammaticalmente, non certo nell’intensità e nella volontà, ma vorremmo rivederle subito, stasera, Francesca e Luisa e non necessariamente a teatro, ma anche sedute a un tavolino di un bar qualsiasi, dove gli spritz, i gestori, non sanno cosa siano, ma di come si faccia a bere e in quantità industriale sono docenti universitari. Perché esiste il teatro per antonomasia, quello nel quale l’attore entra nei panni del personaggio e seppur modulandolo e metabolizzandolo con la sua personalità, finisce per somigliargli maledettamente, fino al punto di avere difficoltà, al termine della rappresentazione, di riappropriarsi se stesso.
PRATO. Non vi spazientite se l’impatto ha tutto il sapore di un esercizio enigmistico attoriale, dove Silvia Gallerano è una e trina e Sonia Antinori, l’autrice e Daria Lippi, compendio generazionale, si intersecano tra di loro in una recita ginnica, sintonica, cameratesca. Del Naufragium lasciato in eredità ai figli della contestazione non se ne parla più, da tempo, ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti e il peggio, di quell’impegno forzoso, autocelebrativo, del tutto inefficace, incapace di fare i conti con la storia, dannoso, dunque, oltre che inutile, se non a lasciarci credere che fossimo i migliori (facciamo parte, seppur di striscio, di quella generazione, anzi, della sua coda più violenta), deve ancora venire: non fa una grinza. Le generazioni successive al ’68 prima e al ’77 poi si sono trovate nella merda, fino al collo, con genitori assenti, colpevoli, ma in modo adorabile, tanto da compiacersene, nella loro letale distrazione, di essere stati, per i propri pargoli, solo e soltanto icone inimitabili, montagne troppo alte da scalare. Certo, nelle nostre case, centinaia di libri, dischi, foto ricordi, poster, cartine e filtrini ovunque, con la presuntuosa certezza che i nostri figli avrebbero inesorabilmente e inevitabilmente fatto le stesse nostre cose.
SESTO FIORENTINO (FI). Qualcuno, nel mondo del teatro sommerso dall’incertezza, da questa quarantena, ne è uscito più forte, più incazzato, più concentrato. Migliore. La prima impressione l’abbiamo avuta con Silvia Frasson (La vita salva); la seconda, dopo aver assistito ad alcune stucchevoli e inutili letture che avrebbero dovuto rappresentare la rinascita dopo i domicili forzosi imposti dai contagi e che invece hanno fatto presagire al peggio, è arrivata con Valentina Banci (I giganti della montagna). Ieri sera (si replica oggi, 4 ottobre, alle 20,30 e alle 22), alla Limonaia di Sesto fiorentino, in uno degli appuntamenti della 33esima edizione di Intercity Festival, il terzo utilissimo, indispensabile, è il caso di scrivere, tassello di una resurrezione vera, l’ha messo Teresa Fallai, vestendo gli abiti, con la sua solita, meravigliosa, eleganza, di Vento, Pioggia, Mare, la trilogia, di complicata lettura e ancor più impegnativa interpretazione, di Jon Fosse, icona monumentale del teatro contemporaneo che continua a farsi ispirare dai suoi testi e dalle sue poesie. Tre appuntamenti teatrali nati sotto genuine influenze artistiche, non influenzate dal buio della reclusione da coronavirus, accidente cosmico che ha solo postdatato i loro esordi, ma che hanno a nostro avviso incattivito e impreziosito i protagonisti, anzi, le protagoniste.
di Stefania Sinisi
FIRENZE. Il destino ha un ruolo predominante in 70 volte 7, perché sconvolgerà due nuclei familiari in un vorticoso intreccio di emozioni. Ognuno di noi è segnato dall’incontro con il fato, con il proprio karma e dagli eventi che si susseguono apparentemente casuali, perché le persone che incontriamo e le circostanze che viviamo possono davvero cambiare il corso delle nostre vite; per sempre. È che in un modo o nell’altro, tutto il bene e tutto il male che entra ci porterà, comunque, verso un’evoluzione e una crescita individuale. La rabbia, invece, ci soffocherà, inaridendoci, ma spesso ne saremo scossi ugualmente e saremo sconvolti per il dolore subito. Questo il plot ideato e diretto da Clara Sancricca, di Controcanto Collettivo, che riapre il sipario al pubblico del Cantiere Florida di Firenze grazie all’interpretazione di Federico Cianciaruso, Riccardo Finocchio, Martina Giovanetti, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero e della stessa regista, Clara Sancricca. Ma il dolore che proviamo, le emozioni che sentiamo, vengono tutte interpretate, elaborate dalla nostra psiche, una ad una in maniera personale e diversa, in ognuno. Ogni individuo ha la propria capacità e i propri tempi per riuscire pian piano ad adattarsi, ad accettare il dolore attraverso la comprensione e l’ascolto, in un viaggio introspettivo dentro se stessi e non solo, che porterà qui i protagonisti all’espiazione del male che entrambi sentono, non solo superandolo, ma oltrepassandolo attraverso il perdono concesso infine da Gabriele (fratello del defunto) all’aguzzino, nonostante le prime resistenze dettate dalla rabbia e dal rancore.
PISTOIA. La vecchia madre è morta. Uno dei tre figli, a denti stretti, ha anche detto finalmente: una delle due sorella si è irretita, a quelle ingiuriose e irriconoscenti parole; l’altra, ha pianto. Ed è proprio lei, quella di mezzo, la figlia, zitella, che è rimasta nella casa di campagna in compagnia della madre vecchia, inferma e con la testa ormai tra le nuvole, altrove, che ci guida nel labirinto della casa, un attimo prima che la ditta dei traslochi, ora che il rudere è stato venduto, tra polvere e memoria, porti nel magazzino quellaserie indecifrata di cianfrusaglie, piatti rotti e fotografie, in bianco e nero. Gabriella Salvaterra, figlia (il)legittima di Enrique Vargas, ci prende per mano, nei meandri del Funaro di Pistoia, fino a domenica prossima, 27 settembre, e ci conduce tra i meandri di Dopo, che è la visita della villa, ormai fatiscente, dopo che l’immobile è stato ceduto a una famiglia inglese innamorata del Chianti e che arriverà in Toscana il prossimo fine settimana, con uno dei voli Charter messi in vendita dalla Ryan Air. Due sue amiche, Loredana D’Agruma ed Elena Ferretti, accompagneranno i visitatori nel percorso guidato, tra luci soffuse, anzi, febbricitanti, fino all’uscita, durante il quale potranno ammirare, stanza per stanza, circa un secolo di storia, emozioni, passioni, fratture, dolori.
di Luna Badawi
FIRENZE. È ora di cena, nel Chiostro di Santa Maria Novella, di una sera calda, ma non afosa. L’ambiente profuma di antico e conserva tutta la bellezza che la storia può riservare. Sei stato invitato a cena con Primo Levi. Sì, proprio quel Levi, il famoso autore di Se questo è un uomo. Sei seduto insieme ad un’altra cinquantina di persone; le luci sono soffuse e il distanziamento sociale rispettato, anche se quello che sta per accadere vorrebbe una vicinanza fisica. Vorrebbe una mano da stringere. Levi sa quanto la storia sia importante, quanto la memoria sia fondamentale, quanto la testimonianza sia un dovere nei confronti dei propri simili. Ed è per questo che non si tira indietro e con estrema lucidità decide di aprirsi e raccontarsi. Alla location meravigliosa, agli archi affrescati, al romanticismo degli alberi che si mescolano ai colori dei dipinti del chiostro si sta per contrapporre uno squarcio di storia violenta, atroce e disumana: l’esperienza del lager. Levi arriva con il suo solito abbigliamento distinto, con la sua razionalità pacata e impressionante. Ed è pronto a testimoniare. In mano hai un foglio con tantissime domande che puoi fargli.
PISTOIA. I domicili coatti imposti dalla quarantena hanno reso un po’ a tutti, nella tragica intimità domestica amplificata da un tempo senza tempo, le corde adolescenziali. Roberto Valerio e Massimo Grigò (in ordine di apparizione, ieri sera, 9 settembre, alla Fortezza Santa Barbara, a Pistoia, in uno degli appuntamenti di Spazi Aperti, promossi dall’Apt), che di mestiere non possono (mai) tralasciare alcun dettaglio, hanno approfittato di questo interregno teatrale per leggere in scena alcuni passi, tra aneddoti, poesie e novelle, di due pionieri: Aldo Fabrizi (Fabbrizi, all’anagrafe, ma sarebbe sembrato un difetto metropolitano) e Renato Fucini, rispettivamente (ma doc), romano e grossetano (fortemente naturalizzato pisano). Il pubblico pistoiese, che conosce bene (benissimo) entrambi, ha deciso di non sottrarsi dal piacevole dovere di consegnare loro, in questo delicatissimo momento di ripartenza esistenziale, prima che sociale, culturale e attoriale, un’incoraggiante dose di applausi. Tutti meritati, ovviamente, al di là di ogni circostanziata ragionevole comprensione. Perché nelle corde di Roberto Valerio, non certo nella stazza, diametralmente opposta, c’è tutta l’ironia ereditata da un vero e proprio maestro dello spettacolo in bianco e nero, una sagoma muta, quella di Aldo Fabrizi.
FIGLINE (PO). La luna è dall’altra parte, rispetto al palcoscenico ricavato ai piedi della parete di marmo; ma è fioca e non ce la fa a illuminare Valentina Banci, che a pochi chilometri di distanza in linea d’aria rispetto alla prima rappresentazione, quella avvenuta al Giardino di Boboli di Firenze, il 5 giugno 1937, centotredici anni dopo, alle pendici della cava di Figline di Prato, dove solo lei, suo fratello Lorenzo e Giulia Barni avrebbero potuto immaginare un allestimento del genere, decide di riportarla in scena I giganti della montagna, scritta e non ultimata, quasi volesse che fossero gli altri, con idee e palle, a completarla, da uno dei padri del teatro contemporaneo, Luigi Pirandello. Partiamo dall’epilogo, con quell’attacco furioso e lucido rivolto agli impresari, o procediamo con ordine, magnificando la scelta, unica, coraggiosa e sin troppo pertinente, ora che è stata partorita, dei fratelli Banci di allestire lì, dove nessuno aveva mai osato nemmeno pensarla, una rappresentazione teatrale? Iniziamo da Valentina Banci, invece, in grazia di quel dio minore accolto nella villa degli Scalognati, unico posto al mondo che si degna di ospitarla, lei e la sua fatiscente compagnia, ricca di storpi, energumeni e contesse decadute, attesi da questi fantasmi che da secoli aspettano la luce per tornare a vivere.
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PISTOIA. Un testo così profondamente comunista (Viaggio al termine della notte), non può che raccogliere il nostro entusiasmo, soprattutto in considerazione del tempo in cui è stato scritto (1932), quando essere compagni aveva un senso ed era una missione, non fingerlo di esserlo, come succede da troppe stagioni, per una detestabile opportunità. Detto questo, di Louis-Ferdinand Céline e del suo inoppugnabile capolavoro, visto che Elio Germano ha deciso di portarlo in scena, occorre scendere in dettagli teatrali e concentrarli sulla rappresentazione andata in scena ieri sera, 30 agosto, al Teatro Manzoni di Pistoia, in uno di questi anomali, ma mirabili, appuntamenti di Spazi Aperti voluti ed egregiamente allestiti dall’Atp. Al cospetto del nichilismo céliniano non si poteva che abbinare all’opera, visto che ha deciso e voluto musicarla, un’atmosfera tetra, dark, che molto si addice al cupismo del testo. Però, Teho Teardo (l’ala musicale della rappresentazione) e le sue tre strumentiste al seguito (Laura Bisceglie, violoncello; Ambra Chiara Michelangeli, viola ed Elena De Stabile, violino) avrebbero potuto avvicinarsi un po’ di più agli Art of Noise, conservando quel timbro musicale che noi detestiamo, ma che si abbina maledettamente bene a Céline in una perfetta e simbiotica evocazione.
PISTOIA. Nel bel mezzo della città, con un recinto virtuale a separare la platea dal resto del centro storico. Questo è quello che si può fare di questi tempi e questo è ciò che l’Atp di Pistoia organizza, Spazi aperti, trasportando il teatro (e i concerti) in un posto ad altro deputati. Ma la forza dei personaggi e di chi dà loro voce va ben oltre il latrare di alcuni cani irriverenti o di alcuni bambini che a teatro non vanno e forse non andranno mai, purtroppo. Renata Palminiello, ideatrice e regista, ha accettato la sfida e i suoi Grandi discorsi l’ha allestito lì, in piazza dello spirito santo, in piena zona a traffico limitato. Il palco sono due scranni tribunalizi e due pulpiti oratoriali, disposti asimmetricamente rispetto al pubblico, sui quali si succedono, in un ordine indecifrabile, otto attori, ognuno rappresentante di un personaggio che ha fatto la storia; o che avrebbe dovuto farla: Carolina Cangini, Stefano Donzelli, Marcella Faraci, Massimo Grigò, Sena Lippi, Elena Meoni, Elena Natucci, Mariano Nieddu, snocciolati in ordine alfabetico, nei panni, senza alcuna relazione d’accoppiamento algebrico, di Emmeline Pankhurst, Virginia Woolf, Bianca Bianchi, Piero Calamandrei, Martin Luther King Jr, Harvey Milk, Paolo Borsellino e Iqbal Masih.
PISTOIA. Trovate presto il vaccino e diffondetelo alla velocità della luce. Poi, una volta immunizzato il pianeta, nell’augurio che non ne venga fuori subito un altro nuovo (ma non è da escludere), istituite l’ordine degli attori (anche se quello dei giornalisti ne suggerirebbe l’inutilità) e stabilite, in merito a parametri condivisi, chi merita di poter recitare e chi si debba accontentare di vederli, gli spettacoli. Però, al di là di quello che riuscirete a fare, de L’amore segreto di Ofelia (ve lo garantisce il pubblico pistoiese della Fortezza Santa Barbara, dove è andato in scena ieri, 22 agosto) correggetene il tiro, per carità. Shakespeare sotto le mentite spoglie di Piero Angela ai tempi della quarantena, affidato a una coppia inedita: Chiara Francini e Andrea Argentieri, ossia Ofelia e Amleto, riveduto e corretto ai tempi del coronavirus, con dialoghi tratti ed estratti dal capolavoro shakespeariano affidati alla regia e ai video di Luigi De Angelis e Chiara Lagani, prodotto da Piefrancesco Pisani – Isabella Borettini per Infinito Teatro e Estate Teatrale Veronese in collaborazione con Argot Produzioni.
PONTEDERA (PI). Non glielo abbiamo chiesto, per non essere sfrontati e irriverenti, ma abbiamo fatto male: perché questa meravigliosa e poetica novella sull’amore, la solitudine, la follia, la decrescita, la rivoluzione e su tutto quello che prima o poi dovrà per forze di cose essere rivalutato, Michele Santeramo non se l’è ballata da solo, dopo essersela suonata e cantata? Certo, sarebbe durata mezz’ora abbondante in più, la rappresentazione, la prima in un emiciclo teatrale open dopo questa tragica follia virale, in quello dell’Era, per la precisione, a Pontedera; come minimo, oltretutto, perché le pause, le sue pause, alle quali ci siamo morbosamente affezionati e che sono un carattere adorabilmente distintivo, avrebbero ingigantito la tristezza, e il lento e inesorabile trascorrere delle vicissitudini avrebbero trasformato quel povero scemo in un piccolo, grande inconsapevole eroe. Ma non sarebbe dispiaciuto a nessuno se il racconto, preceduto da un intro musicale jazid di rara gradevolezza e che ci hanno assicurato essere solo una coincidenza del server del teatro, si fosse preso anche altri lembi della notte, tra i presenti, tutti debitamente distanziati, appoggiati su comodissimi cuscinetti in attesa che le seggioline con materiale riciclato prendano il largo industriale, anche perché, se il crooner di Salvatore, anziché Arturo Muselli (se avesse studiato a fondo e lo avesse memorizzato, il testo, si sarebbe dovuto concentrare meno sul leggerlo), fosse stato lui stesso, oltre agli applausi, i presenti avrebbero dovuto impegnare le mani anche per asciugarsi il viso, inevitabilmente irrorato da lacrime indispensabili.
SAN MINIATO (PI). Un testo di resurrezione, resistenza, resilienza. Pare essere stato scritto alla bisogna per questo virus che sembra si stia esaurendo e la vita, attorno, che rinasce. Invece era soltanto premonitore, perché La vita salva, in scena, in prima assoluta venerdì 17 luglio alla 74esima edizione della Festa del Teatro di San Miniato, con questa quarantena non ha nulla da spartire; con la paura sì, però, per non parlare di speranza, coincidenza, imminenza. A suonarsela, cantarsela e ballarsela, solo lei, Silvia Frasson, l’autrice, prodotta da Tedavi ’98 in collaborazione con Festival Montagne Racconta e la Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato. Ma non è un monologo; è una videochiamata in chat, dove si (ri)trovano persone che fino all’istante precedente pensavano di potersi ignorare: donne in cerca di riscatto; figli che non riescono a trovare la via dell’autosufficienza; bambini spensierati, bambini condannati, spiriti liberi che improvvisamente decidono di affidarsi a qualcuno. Vite sospese, come amache che si dondolano, tanto inesorabilmente quanto inconsapevolmente, tra l’inizio e la fine, la nascita e la morte. Sono i battiti della vita, scanditi con la stessa inesorabile frequenza a qualsiasi latitudine e che, con la stessa inoppugnabilità, conducono alla fine. È quello che succede durante il tragitto che ha senso e ragione di essere vissuto e, perché no, raccontato.
di Anna Antonelli
GALLENO (LU). L'esperienza del teatro è già un'esperienza unica, è l'arte che vive e si manifesta davanti a noi. L'esperienza del teatro (e quindi dell'arte) in spazi non convenzionali è un'esperienza emotiva amplificata. Ed è nel luogo in cui la rappresentazione si svolge, che esso stesso si trasforma per osmosi, in luogo per eccellenza: il bosco, il campo, le strade, la quercia, il gelso. Tutto muta in scena, donando a noi che la viviamo la possibilità di partecipare a un atto creativo che diventa non solo rappresentazione, ma rituale sacro rivolto alla terra, ai suoi semi, alla biodiversità. Nell'escursione notturna all'interno delle Cerbaie curata da Massimiliano Petrolo, Luca Privitera ha dato vita a tre personaggi, tre racconti diversi, tratti dallo spettacolo Paese Mio, non evulsi dal luogo reale, ma perfettamente legati e integrati a esso. Così la rappresentazione della vita contadina, nella sua semplicità e profondità, e con il pubblico immerso in quei paesaggi evocati, diventa un flashback miracoloso: sposta il tempo, lo spazio e lo spettatore, portandolo esattamente dove si trova l'artista e la storia narrata. E sono gli stornelli della tradizione Toscana e le foto in bianco e nero che ritraggono gli abitanti del passato a creare una sorta di presentazione drammaturgica adatta a svelare quel lato poetico e spietato che solo i mezzadri e gli agricoltori di un tempo hanno vissuto: il bagno nel campo, la bocca sdentata, la fame, le schioppettate a salve, i racconti di paura intorno ai camini, le veglie, le donne, le sorgenti.
Aspettiamo fiduciosi, qualcosa dovrà pur succedere: la fine di questa pandemia, la scoperta di un vaccino. Abbiamo bisogno di tornare alla normalità, soprattutto per poter continuare a regalare riflessioni, provocazioni, sogni.
Lo dice Roberto Valerio, che uomo di spettacolo può tranquillamente proclamarsi, senza spocchia alcuna, ma anche senza il minimo timore di venir contraddetto; lo racconta il suo curriculum: nel 1996, all’età di ventisei anni, si diploma all’Accademia di Arte drammatica Silvio D’Amico di Roma, dove è nato, per poi dirigere quattordici spettacoli teatrali, alcuni dei quali anche nella doppia figura di protagonista.
Non ho la patente di attore, perché credo che non esista, così come sono convinto che nessuno possa assegnarla a nessuno. Ho visto gente uscire dalle Accademie di recitazione senza avere la minima idea, né cognizione, di teatro; conosco degli autodidatta che sono personaggi meravigliosi. Bisognerebbe che lo Stato, soprattutto il nostro, che vanta trascorsi che hanno fatto scuola ovunque, dal cinema al teatro, passando per la musica, investisse sulla cultura e che il ruolo di agente di spettacolo fosse grandemente tutelato, non solo in questo inimmaginabile momento.
di Saverio Cona
SOLO L'AMARE, solo il conoscere conta, non l'aver amato, non l'aver conosciuto (Pier Paolo Pasolini). Cristina Pezzoli era una grande personalità e una persona buona. La conoscevo sin dagli anni ‘80. Poi, per me, la morte è sempre una sorpresa, anche se solo la morte è certa. Si fa fatica a descriverla con la sola parola: regista; era piuttosto una vorticosa, tenacissima animatrice culturale di una stoffa sopraffina di cui solo i poeti ne sono intessuti. Aveva una propensione inesauribile, quasi stupefacente, per il sottotesto e quando avviava una nuova iniziativa questa diventava una sorta di viaggio: era capace di non degnarsi della realtà e delle sue leggi per andare avanti nel suo viaggio, lasciandosi abbracciare e trascinare dal viaggio stesso per non contrastarne l'evoluzione. Quasi un processo di purificazione. Nell'affrontare gli spettacoli della tradizione teatrale ho sempre notato che il suo punto di partenza era l'assunzione di un tempo ben definito (il passato) in cui le produzioni precedenti che sono andate in scena hanno espresso un evento già avvenuto. Poi iniziava il viaggio nell'irrealtà privo di compromessi, ripetute metafore e l'interpretazione attraverso la vista, l'immaginazione, il sogno, ma soprattutto le sensazioni completamente soggettive che vanno al di là del testo e che probabilmente non si possono descrivere, né catalogare in quanto parte di un mondo intimo che non possiamo studiare, ma di cui possiamo usufruire. Ho visto Cristina capace di rovesciare il proprio astio verso tutto ciò che la disgustava: burocrati; grettezza, luoghi comuni, con la sfrontatezza di un adolescente che non ha paura di dire e di procurare imbarazzo.
di Ilaria Giannecchini
CAPANNORI (LU). Premetto che questo è il punto di vista di una persona fortunata, nonostante la situazione: vivo con i miei genitori, in casa sì, ma circondata dall’affetto, siamo tutti in salute e abbiamo un tetto sulla testa e cibo ogni giorno. Per cui posso ovviamente permettermi di poter parlare così. Mi dispiace per tutte quelle persone a cui mancano in questo momento queste cose, che sono la base per poter avere una vita serena e gli auguro tutto il bene e un futuro prospero. Fatta questa premessa posso parlare della mia percezione delle cose e di come io ho preferito impiegare il mio tempo. La situazione è sicuramente complicata e, come tutte le situazioni complicate, tira fuori ed esalta tante sfaccettature, i lati caratteriali di ognuno di noi. Le persone sono molto impaurite e secondo me questo è dovuto, oltre alla situazione in sé con cui ci stiamo confrontando, anche a un eccesso di informazioni. La caccia all’ultima notizia (quasi sempre negativa peraltro) e la confusione delle informazioni contrastanti tra loro, hanno portato in questi mesi alla confusione totale e star dietro a tutto questo leva energia, sfinisce fisicamente e mentalmente. Per questo ho deciso già dai primi giorni di non confondermi troppo con tutto questo caos. Preferisco la musica che, con il suo ordine e la sua disciplina, dà più libertà di quello che si pensi. Il tempo a disposizione in questi giorni è enorme e di alta qualità: tante giornate libere da poter suddividere come preferisco, tra lezioni, studio della tecnica, dell’improvvisazione, ascolto, pianoforte, ampliamento del repertorio.
di Giuliano Livi
PISTOIA. ... e quando miro in cielo arder le stelle;/ dico fra me pensando:/ A che tante facelle?/ che fa l'aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? che vuol dir questa/ solitudine immensa? ed io che sono?/ Così meco ragiono: e della stanza/ smisurata e superba,/ e dell'innumerabile famiglia/... uso alcuno, alcun frutto/indovinar non so. (Giacomo Leopardi: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: vv 84-92,97-98).
Ecco, ci risiamo, sei in grado solo di portare riflessioni di altri; lìberati del tuo ruolo di professore e rifletti come uomo, solo e disarmato. Se insegnavi filosofia ora ci parlavi di Kant, di Platone o di altri ma, allora, la capacità di riflettere è solo e sempre in relazione a chi sei, alla tua cultura, alle tue esperienze di vita? Penso proprio che sia così, ma, allora, perché si pensa e si riflette tutti sulle stesse vicende, sulle stesse problematiche, sulla vita, sull'amore, sull'amicizia, sulla morte. Ma allora riflettiamo perché vogliamo piegare il passato, il presente e il futuro secondo i nostri intendimenti? Ora stai facendo anche il filologo! Ma allora devo riflettere? Non voglio riflettere. Ma non puoi non riflettere sulla fragilità della vita, sulla vanità delle azioni umane; altrimenti sei un superficiale, un uomo senza coscienza e senza consapevolezza di sé. Quando non avevo ancora dieci anni, durante una scorrazzata in bicicletta fra amici, uno di noi cadde, nemmeno rovinosamente, si rialzò e continuammo a inseguirci e a ridere di tutto e di tutti. Nel pomeriggio, era morto, perché un freno della bicicletta gli aveva distrutto, mi pare, il fegato.
di Claudia Cappellini
PISTOIA. Una pozza d’acqua che ristagna, orrenda pinzillacchera spaurita, mi accoglie sulla porta consumata di una stanza in affitto e seminterrata. Mi metto anche a far le rime, penso tra me. Apro la porta, superando con la scarpa la pozzanghera, e accendo la luce a destra del mio spazio. È un sotterraneo, non c’è che dire. Basso il soffitto, alte le fessure finestrine, buio o, come diceva il cartello in agenzia, parzialmente illuminato. È un seminterrato. La paura che mi assale passa alla svelta. Conto i soldi, enumero i bisogni nella testa, faccio un giro per la stanza ancora parzialmente illuminata e decido di restare. Porto con me poche cose. No, la valigia sul letto no. La metto e la apro su una sedia. Prendo gli oggetti uno a uno. Un sacchetto con svariate conchiglie ripulite. Un pezzo di boa con corda attaccata. Sugheri. Anch’essi svariati. Una salvagente sgonfiato e arancione. Una cerata, tela impermeabile, contro l’umidità. Bottoni da camicia. Una camicia. Un paio di scarpe nuove. Fine del bagaglio. Li ho messi, uno a uno mentre li prendevo, su un mobile basso che li ha accolti con ampiezza di superficie. Mi tolgo le scarpe e mi distendo sul letto davanti al mobile basso. Ripenso a ieri, a ieri l’altro, ai giorni passati, ai mesi, agli anni passati. Ripenso alla barca che oggi nessuno bagnerà, che nessuno bagnerà domani.
di Olga Agostini
PISTOIA. Finalmente potrò rimettere a posto le mie cose. Ne avrò tutto il tempo. Questo è stato uno dei primi pensieri positivi che è apparso nella mia mente, per scacciare la negatività dei messaggi. Il dover rimettere in ordine è per me, in genere, un pensiero ossessivo, che non riesco a placare, perché farlo, il riordino, è ancora peggio che pensarlo. Mi sgomento, mi sento incapace e ho il terrore di passare al vaglio gli oggetti, le carte, la polvere e i ricordi accumulati. Di solito me ne frego e vado avanti, attivandomi solamente quando diventa indispensabile. Ma questa improvvisa covid-pausa, data l’assenza di alibi per sfuggire al dovere e dato il suo riconoscimento universale, si è presentata come l’occasione per farlo. Anzi, si è trattato addirittura di una pausa imposta, senza se e senza ma. Dunque mi sono buttata. Ho sfilato una vecchia scatola di cartone da un ripostiglio ricavato tra due porte, stando attenta a non smontare i complessi incastri tra le cose. Sono stata bravissima a lasciare un buco entro la struttura incoerente, ma solida, del ripostiglio. Non per nulla ho superato con successo, anni fa, l’esame di scienza delle costruzioni. Quella scatola è uno degli oggetti che mi hanno seguita in ogni trasloco, il contenitore di un archivio personale: vecchie lettere, cartoline, biglietti, chewingum a striscia oramai rinsecchiti, biglietti di viaggio, appunti: oggetti inutili.
di Annibale Pavone
FIRENZE. E poi cosa succederà? Adesso che è tutto fermo, che abbiamo tempo per stare con noi stessi e ascoltarci, adesso, in questo silenzio, sentiamo ciò che prima era coperto dal rumore, vediamo ciò che si nascondeva sotto quel continuo andare e venire. E finalmente le cose ci appaiono nella loro nudità, e prendiamo coscienza di cosa sia davvero importante. E pensiamo che quando ricominceremo sarà diverso. Avremo capito che non ha senso quella frenesia del fare, se basta poco più di un cimurro per fermarci. Che non ha senso calpestarci e farci la guerra se basta un pipistrello per sconfiggerci tutti. Adesso che l’aria è pulita e perfino il buco dell’ozono si sta chiudendo ci rendiamo conto che non vale la pena distruggere l’ambiente per due soldi in più, se basta un attimo per togliere a quei soldi qualunque valore. Adesso che tocchiamo tutto questo con mano pensiamo che non ce lo scorderemo più. Sarà dura tornare a fare teatro, ma sarà finalmente naturale essere solidali, e diventare una vera categoria di lavoratori ed essere riconosciuti come tali. Il pubblico tornerà a vedere gli spettacoli, non per abitudine sociale o per distrarsi un’oretta, ma per ritrovare nel teatro la bellezza di un rito nato non per consolare o rassicurare, ma per far crescere l’uomo come parte di una comunità viva.
di Pasquale Scalzi
PRATO. La libertà è una forma di disciplina… così recita un verso di Depressione caspica dei C.S.I. Ma l’uomo ha mai esercitato la libertà? Voglio dire facendo esercizi specifici, attività formative e di apprendimento morale attraverso la teoria, lo studio, la pratica, la ginnastica mentale e la disciplina, appunto, come a scuola? Direi di no. E quale occasione migliore per imparare a farlo ora? Cominciare a essere liberi davvero dico, finalmente. Ora che dobbiamo stare chiusi in casa, già, come in prigione. Esatto! Un detenuto-attore della Compagnia della Fortezza di Volterra una volta disse che si sentiva molto più libero da quando era in prigione rispetto a prima, quando stava fuori. Aveva ragione. In prigione il tuo tempo è veramente tuo. Non devi rendere conto a nessuno. Alla fine decidi e sai davvero cosa vuoi fare: leggere, ascoltare e fare musica, fare teatro, dipingere, scolpire, scrivere, osservare, sognare. Evviva la Santa Noia! E maledetta la Routine!La nostra è sempre stata solo un’illusione di libertà: sveglia coatta e innaturale la mattina, pasti insani e velenosi a tutte le ore, polveri sottili, inquinamenti mentali, relazioni social-patiche, lavori forzati in cui vai a lavorare per comprare la macchina per andare a lavorare, spendendo 8 ore del tuo tempo per campare (male) quelle che resta no.
di Roberta Mattei
ROMA. C' è tempo domani per la velocità, di questa esistenza che sogni più non ha Cosi cantava Mia Martini con un filo di malinconia. Eh si, in questi giorni ci si ritrova spesso a testa in su o con lo sguardo che si affaccia fuori dalla finestra per perdersi in pensieri lunghi e senza ritorno. E non è forse questo che la velocità della vita ci aveva un po’ tolto, a botte di schermi, video virali, pensieri dovuti a un social per non sentire di scomparire? Ora possiamo scomparire. E forse ne abbiamo il dovere. Perché il tempo si è dilatato, o forse ha ripreso una forma antica, quella della lentezza. C'è quello interno e quello che gli altri stabiliscono per noi o meglio che le cose da fare ci impongono. Ora qualcosa ci sta imponendo, un tempo forse per alcuni nuovo. Quello fatto di noia, che come diceva Giacomo Leopardi è il più nobile degli stati. La noia è uno stato apparentemente statico. Ma in esso vi è la possibilità di una nuova esperienza. La stasi. Che nel suo vuoto contiene ance il tutto. Certo non che nascano dal nulla, sogni e i desideri, o che possano nascere così all’improvviso solo perché ci sentiamo annoiati.
di Stefania Sinisi
FIRENZE. Ore 5:30: circolano molte auto sotto casa e a velocità esorbitanti; c’è qualcosa di inconsueto: lo scorrere dei tram, gli autobus di linea nei viali, le ambulanze, li distinguo tutti molto bene, un gran via vai, sento anche alcuni motorini e tutto questo non accadeva da molto tempo, è ancora buio, solo tra un’ora inizierà a schiarirsi. Gli uccelli fischiettano spensierati e sembrano non curarsi di quello che accade loro accanto. Ho avuto un incubo e ora preferisco attendere l’alba. I nostri giorni scorrono lenti, tutti apparentemente uguali, un senso claustrofobico di depressivo esistenzialismo mi attanaglia la gola, ho bisogno di uscire sul terrazzo alle ore più strane del giorno e della notte, mi manca l’aria, mi sento soffocare. Mi immergo nella vasca per affogare il mio senso di inquietudine. Non riesco ad accettare questa vergognosa pandemia. Siamo piombati nel realismo puro e semplice nel modo più atroce e assurdo che ci poteva mai capitare.
di Fabrizio Pucci
LIVORNO. C’è silenzio attorno me. Viene rotto solo dalle voci dei vicini. Livorno, città casinista e indisciplinata, da giorni sta faticosamente tentando di virare su una modalità composta, dignitosamente sofferente. Sì, perché questo film dell’orrore nel quale tutti siamo - nostro malgrado - protagonisti, trova nelle sue prime scene l’assunto di base: l’accettazione della sofferenza prodotta dalla pandemia. Sofferenza fisica per quanti sono contagiati. Sofferenza psicologica per tutti gli altri, carcerati nelle proprie abitazioni senza una valida o logica alternativa. C’è silenzio attorno a me. E ci sono i pensieri. Forse aveva proprio ragione Vico. La sua visione ciclica della storia è corretta. Cento anni dopo – o giù di lì – l’influenza spagnola, ecco una nuova pandemia. Una specie di peste che ha sbattuto noi – webgenerazione per eccellenza – indietro di quattro secoli tra nuovi untori, monatti e uno spazio purtroppo limitatissimo per la pietas umana.
di Francesca Infante
PISTOIA. E poi si apre il sipario, e per la prima volta la prospettiva cambia. È andata in scena sabato 29 febbraio l’ultima replica di Circolo popolare artico – La vergine fredda. Questo è il terzo e ultimo episodio della trilogia artica (prodotta dall'associazione teatrale pistoiese), che vede in scena la compagnia Gli Omini (Luca Zacchini e Francesco Rotelli), con l'aggiunta, per questo episodio, di Paola Tintinelli. E per chiudere questo percorso ispirato ai racconti di Jørn Riel, la compagnia ha scelto di mettere in scena anche il pubblico, e non metaforicamente. Pochissimi posti, per una visuale insolita, attendono gli spettatori sul palco del Teatro Manzoni. Emma, la sola e unica donna nelle terre sconfinate, solitarie e selvagge, è la protagonista di questo ultimo racconto. Il Conte l'ha incontrata per primo e amata follemente. Poi l'ha ceduta a un altro in cambio di un fucile. Da qui la storia non cambia mai; vediamo un susseguirsi di uomini che si appropriano di Emma, se ne innamorano all’istante e poi ancora più velocemente la cedono a un altro uomo, in cambio di beni materiali.
PRATO. Non trasuda simpatia, Oscar De Summa, sul palco e giù da questo, ma è un intellettuale indispensabile che va protetto con le unghie e con i denti, perché è una voce, autorevole, della cultura teatrale italiana, che non si ciba di marchette. Vanta un dizionario sontuoso, articolatissimo, che scioglie e discioglie con grazia, per non parlare della mirabile facoltà investigativa sociale; la trilogia della Provincia è quanto di più interessante sia stato scritto negli ultimi quindici anni e in questa, La sorella di Gesucristo un capolavoro di denuncia e dolore. Anche al Fabbricone di Prato (oggi pomeriggio, 1° marzo, alle 16,30, ultima replica), il vate brindisino, con Da Prometeo. Indomabile è la notte, ha messo sapientemente a cuocere le sue qualità migliori, avvalendosi della collaborazione attoriale di una gran bella forza del teatro, Marina Occhionero e di Luca Carbone e Rebecca Rossetti, che hanno l’obbligo scenico contingente di sembrare decisamente meno della piccola grande promessa, non solo teatrale, ma anche musicale e cinematografica, di quello che non sappiamo potrebbero essere. Della piccola, rabbiosa, fiammiferaia non mancherà occasione di parlarne con dovizia di dettagli e abbondanza di aggettivi.
FIRENZE. La venerazione che chiunque provi, minimamente appassionato di cinema, (ri)pensando a I soliti ignori è insindacabile: si tratta, a proposito della pellicola di Mario Monicelli, di un capolavoro, senza se e senza ma. L’omonima trasposizione teatrale (in scena alla Pergola di Firenze fino a domani, domenica 1° marzo) adattata da Antonio Grasso e Pier Paolo Piciarelli, con la regia di Vinicio Marchioni (una straordinaria resurrezione di Tiberio Braschi, all’eternità Marcello Mastroianni), ha il merito, doveroso, quasi obbligatorio - blasfemo, qualora non fosse stato osservato -, di tentare di riproporre, con devozione e ammirazione, le movenze di quei mostri sacri, che ci piace ricordarlo, rispondono ai nomi, leggendari, di Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò, Renato Salvatori, Tiberio Murgia e una giovanissima, ma già tra le più belle al mondo, Claudia Cardinale. La rappresentazione ha il merito, dunque, di non azzardare marchingegni e di genuflettersi ai cantori di quella banda di disgraziati, riproponendone alcune immagini indimenticabili (su tutte, l’escamotage, all’arrivo dei gendarmi, di camuffare gli esperimenti su una cassaforte/pilota con una lavatrice attorno alla quale si sta consumando una riunione condominiale di panni stesi).
di Mailè Orsi
CARRARA. Atene, 399 a.C. Socrate muore. Accusato dalla città di empietà e corruzione dei giovani, viene condannato a morte, accetta la condanna, beve il veleno. Socrate muore e la sua è una delle tante morti ingiuste della storia. Molto inquietante. Socrate non sopravvive. O forse sì? Socrate sopravvive in almeno due modi. Primo, per la scelta di rimanere coerente con se stesso, con la sua legge (come si può convivere con un nemico, dentro di noi?); secondo, sopravvive nella filosofia, nella storia dell’umanità, attraverso Platone. In Socrate il sopravvissuto come le foglie (Teatro Animosi, per la regia di Simone Derai e Patrizia Vercesi, dall’omino romanzo di Antonio Scurati, produzione Anagoor, co-produzione Festival delle Colline Torinesi e Centrale Fies, con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto) si ipotizza, in un certo senso, un altro modo per farlo sopravvivere. Scopriamo una terza possibilità grazie al cortocircuito fra il romanzo Il sopravvissuto di Antonio Scurati e gli innesti liberamente ispirati ai Dialoghi di Platone (il Fedone - in cui si assiste alle ultime ore di vita del maestro - e l’Alcibiade Maggiore) e a Cees Nooteboom (scrittore e drammaturgo olandese nato nel ‘33).
di Francesca Infante
PISTOIA. C'è un istante, magico, prima dell'inizio di uno spettacolo a teatro: ti sei seduto nel tuo posto, il sipario è chiuso e all'improvviso la luce si spegne. Rimani al buio, sai solo che la tua testa era rivolta verso il palco, ma non ne sei più tanto certo in quell'oscurità. E sei lì che aspetti trepidante che una luce si accenda, che il sipario si apra, ma non sai bene quando succederà e nel frattempo la tua mente vaga, cerca di immaginare la scena dietro quel sipario, le luci, quale attore entrerà per primo sul palco, ma soprattutto cerchi di immaginare come si svilupperà quella storia che pensi di aver intuito da quelle poche righe scritte dentro un volantino. Poi il sipario si apre quando non pensavi che sarebbe successo e capisci che esiste ancora qualcosa che riesce a sorprendere. Domenica 23 febbraio è andata in scena l'ultima replica del weekend, al Teatro Manzoni di Pistoia, de Le Signorine (prodotto da Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo e coprodotto da Artisti Riuniti), di Gianni Clementi, per la regia di Pierpaolo Sepe, con Isa Danieli e Giuliana De Sio.
FIRENZE. Di come siano andate veramente le cose la notte del 31 agosto del 1997, a Parigi, quando Lady Diana e Dodi Al Fayed rimasero vittime di un tragico incidente stradale sotto il tunnel di Pont de l’Alma, a bordo della Mercedes guidata dall’autista del principe marrucchino che si sfracellò contro il tredicesimo pilastro della galleria, non è molto importante. Ma non per la nostra totale disaffezione e disinteresse ai Regni e alla vita dei miliardari, quanto nell’economia della recensione di Una tragedia reale, opera ultima di Giuseppe Patroni Griffi, diretta da Francesco Saponaro e prodotta da Tradizione e Turismo – Centro di Produzione teatrale Teatri Uniti. E siccome è semplicemente inimmaginabile lo stato di agitazione che arrivò, nel bel mezzo della notte, nella regale abitazione, quando la notizia della morte della Principessa iniziò a fare il giro del Mondo, sorridiamo gustosamente, ma non certo sadicamente, all’idea che le cose possano essere andate proprio come sono state rappresentate lo scorso fine settimana sul palco fiorentino del Teatro Florida,
di Olimpia Capitano
LIVORNO. Luce. Due sedie a fiori e la statua di un doberman di spalle. La scena – Bella bestia (prodotto da Officine cultura e con il sostegno di Regione Toscana e Armunia) - e la sua simbologia evocano una tensione interrogativa. Poi entrano due donne (Francesca Sarteanesi e Luisa Bosi), con movimento frenetico, quasi nevrotico e iniziano a parlare, parlare e ancora parlare. È una cascata di frasi, aneddoti, considerazioni quella alla quale si assiste al Nuovo Teatro delle Commedie, a Livorno, nella rassegna Little Bit Festival, dedicata ai nuovi linguaggi contemporanei. Un saltare dall’uno all’altro argomento che ancora preserva quella stessa tensione interrogativa che non si scioglie, ma viaggia insieme ai dialoghi delle due protagoniste, mentre il numero dei doberman in scena cresce quasi senza che tu te ne accorga. Prima giràti di schiena, poi verso di noi, poi accerchiano la scena stessa e poi tornano in schiera, quasi a dividere l’atto dall’osservatore: bestie che guardano, minacciano, proteggono o semplicemente stanno.
di Francesca Infante
PISTOIA. Si può usare un'iconica colonna sonora, entrata nell'immaginario collettivo come assonanza del terrore per la banalità di una storia, fatta di ritagli di carta, ma anche di ritagli di trame famose del cinema americano? Perché essere innovativi nel raccontare per non raccontare assolutamente niente? Seduta comodamente alla sua scrivania di scena, muove quei ritagli di carta come marionette. D'altronde è una burattinaia, e non si può dire che questo non le riesca. Con quella sua presenza scenica e quell'ironia che ricordano la mimica di Charlie Chaplin, Yael Rasooly, il 21 febbraio è arrivata sul palco de Il Funaro, a Pistoia, con il suo Paper Cut. Ma andiamo con ordine: la trama. Lei, segretaria in un ufficio legale, è innamorata segretamente del suo capo, che oltre a non ricambiarla, la sfrutta anche per scrivere lettere d'amore alla misteriosa Georgette. Distrutta da questo amore non corrisposto, inizia a sognare un'ipotetica relazione con il suo Richard.
PRATO. Molto meno del minimo indispensabile. Ma a When the rain stops falling non serve altro: basta un tavolo, allungabile, che accoglierà tutti i protagonisti un attimo prima dell’epilogo, quasi si trattasse di una reunion generazionale, più che familiare, sul quale consumare, a distanza di tempo e di spazio, un piatto di pesce, caduto dal cielo, tra l’altro. Tenere a memoria e collegare tra loro i gradi di parentela che allegano e affiatano quelli degli York e dei Low non è affatto semplice. Andrew Bovell, l’autore australiano del testo, tradotto da Margherita Mauro, dietro il progetto di Lacasdargilla e per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli, che spopola da dodici anni in giro per il mondo e che è ora sul palcoscenico del Metastasio di Prato (fino a domani pomeriggio, 23 febbraio), ha affidato alla prosa, alla forza della parola, il districarsi del testo, che rimbalza, in armoniosa altalena e senza alcun contraccolpo, dalla seconda metà del XIX° secolo alla prima del XX°, una leggiadra e disinvolta lettura temporale, seppur nuda e cruda, che ha indotto la giuria dell’Ubu a consegnare, nel 2019, a When the rain stops falling, ben tre statuette come miglior testo straniero.
di Olimpia Capitano
FIRENZE. Αξτω, Axto, Ne vale la pena. Una parola, una titolatura e la sua trasposizione multilinguistica (in scena al Cantiere Florida di Firenze venerdì 14 e sabato 15 febbraio) nascondono una locuzione frasale ben celata; essa oscilla tra l’affermazione e l’autoriflessione, si muove tra asserzione e domanda, assieme a corpi e voci che ti conducono attraverso uno e mille temi. Danza, musica e prosa si incontrano in un’unica rappresentazione per aiutarci a sviscerare una pena che è condizione umana, che si trascina dall’origine dell’essere uomo e che si riattualizza nelle forme della contemporaneità. Si tratta dalla pena che deriva dalle più intime relazioni umane, da un’interazione e confronto che, volenti o nolenti, ti conducono dalla nascita alla morte, un po’ trascinandoti per mano, un po’ strattonandoti furiosamente e alimentando nel dolore lontananza e incomprensione. È la famiglia. È il nucleo originario, primordiale, ciò che ti dà e depriva; linfa e alcova, ma anche veleno e galera. È una e sono mille pene: è la pena dell’essere nati; dell’animale sociale immerso in una caoticità emotiva e psicologica, in un disequilibrio che è umanità e fragilità; della difficolta relazionale e della costante sensazione di incomprensione, come fosse impossibile trovare qualcuno con cui sciogliere i propri nodi e condividere se, anche nell’ambiente idealmente più intimo, la tua casa.
PISTOIA. Se nel 2018 la forbita giuria del premio Ubu lo ha eletto miglior spettacolo dell’anno, cosa volete che se ne scriva, noi? Per fortuna non ci siamo mai lasciati suggestionare, ma questo Overload (sabato 15 febbraio al Bolognini di Pistoia) è davvero un’idea geniale, che fa i conti con tutta la forbita ed eccellente tradizione di Sotterraneo, ma facendo decisamente un passo in avanti, nient’affatto più lungo della gamba. L’anglosassone Claudio Cirri è David Foster Wallace, che proverà a sottoporre il pubblico a uno dei suoi esperimenti sociologici e psicologici: misurare l’attenzione umana e stabilire se questa, cronometro alla mano, superi quella dei pesci rossi, notoriamente ferma a nove secondi (nell’acquario in scena, infatti, i due pesciolini rossi, per esistere, devono essere ricaricariti). Lo farà con estrema democrazia, perché Sara Bonaventura, l’altra metà dello Scantinato, offrirà agli spettatori la possibilità di andare a sondare i vari contenuti nascosti, che perseguitano ogni informazione; per farlo, sarà sufficiente che dalla platea, anche uno solo dei presenti si alzi dalla poltrona durante i cinque secondi che partono da quando la segretaria di studio mostrerà un cartello raffigurante una semplice freccia.
PRATO. L’eternità di certe idee è un’arma a doppio taglio, soprattutto quando si è in vena di rileggerle. Valter Malosti, però, nella circostanza specifica, prodotta dal TPE, Carcano e Lugano in scena, quella de Il misantropo (al Fabbricone di Prato fino a domenica 16 febbraio), decontestualizza, prudentemente e intelligentemente, Molière e trasporta ai giorni nostri la crisi esistenziale e nichilista, pura e corrotta, intransigente e incline ai più aberranti compromessi amorosi, di Alceste (in versione Harvey Keitel, quella di Pulp Fiction). La scenografia è un semplice ring, senza corde, o una piattaforma di una discoteca, nella quale e dalla quale si può entrare e uscire in libertà e ai cui lati ci sono otto sedie, sulle quali siedono rispettivamente i protagonisti della rappresentazione, anni ’70, stile juke-box, in attesa della canzone che li convinca e li spinga a salire in pista. Da una parte, accanto al protagonista, il misantropico regista, le sue tre donne: Célimène (Anna Della Rosa), Arsinoé (Sara Bertelà) ed Eliante (Roberta Lanave);
PRATO. Fino a quando indossa la tuta anticontagio, o quella che contraddistingue i disinnescatori di mine, Roberto Abbiati è la maschera che accompagna il pubblico del Magnolfi di Prato (in prima assoluta; si replica fino al 23 febbraio) ad accomodarsi lungo le poltroncine disposte a emiciclo intorno al palco. Non è galante; anzi, è particolarmente burbero e nonostante tutto il pubblico conosca la sua storia e quella di chi ha deciso di fargli indossare i panni di Josef K., qualcuno si augura che stia scherzando. Nient’affatto. Del resto, Circo Kafka, produzione bilingue tra Metastasio e Teatro Piemonte Europa, trasfigurazione gutturale, armonica, intuitiva, deduttiva, figurativa, contemporanea, anzi, eterna, di un processo senza storia e senza tempo, che Claudio Morganti (tra il pubblico, ma nella terza e ultima fila), noto sobillatore teatrale, ha deciso di portare in scena, è volutamente tragicomica, senza risposte, seppur sopraffatta di domande, esattamente come Il processo dell’ignaro bancario immacolato, che sentenziò condanna. A prescindere. L’aula del tribunale, però, dove Josef K. non arrivò mai, è in realtà la sua camera d'albergo, un puzzle di oggetti da mercato dell’antiquariato:
FIRENZE. La tentazione sarebbe quella che ci indurrebbe a dissentire, tecnicamente, sulla relazione triangolare, ma che triangolare, multifacciale, multimediale, tra Leonardo Da Vinci (tuttologo di cui abbiamo timore a solo pronunciarne il nome), Leonardo Fibonacci (matematico pisano che ci ha regalato i numeri arabi), Leonardo Diana (coreografo, danzattore, persona particolarmente squisita), Nicola Buttari (scenografo), Luna Cenere e Isabella Giustina (danzattrici) e il Teatro Cantiere Florida, di Firenze, ad aver avuto il privilegio e l’onore di aver ospitato questo magnifico trip. Per onestà intellettuale, prima che deontologica, ci preme raccontarvi che non siamo riusciti, per ignoranza globale, a cogliere il nesso alfanumerico/danzante/musicale/visivo che ha sicuramente mosso ogni cosa attorno a In sezione aurea; con la stessa identica franchezza, però, scriviamo che le emozioni olfattive, prima di ogni altro senso, che abbiamo avuto il privilegio di assaporare e che ci accompagnano e guidano, sistematicamente, ogni volta che la fortuna ci pone di fronte a tanta meraviglia, abbiano superato di gran lunga la nostra limitata e terribilmente empirica capacità recettiva e che alla fine della rappresentazione abbiamo umanamente ringraziato coloro i quali abbiano avuto la capacità di organizzarla.
PRATO. Non si è voluto dimenticare nulla, ma proprio nulla, Luca De Fusco, in questo sontuoso libero riadattamento de La tempesta, al Metastasio di Prato fino a domenica prossima, 9 febbraio, ultima opera, quasi testamentaria, di William Shakespeare. A cominciare dal direttore d’orchestra, Prospero (Eros Pagni), volutamente sprovvisto di bacchetta, principe disarcionato dal suo regno che ha preferito l’isola che non c’è - e che non ci sarà mai, probabilmente - per metabolizzare la propria vendetta, che sarà quanto di più atroce si possa architettare: il perdono. Ma non è solo il vecchio protagonista a meravigliare; l’onirismo dell’intera rappresentazione, un crack particolarmente efficace, quello allestito da Marta Crisolini Malatesta, spolvera tutta la scienza e la conoscenza del regista, che in questa full immersion decide di restare in apnea con le cose che ha più care e che trasporta nei desideri del monumentale Prospero, che oltre a sdoppiarsi nelle sue creazioni, Ariel e Calibano (Gaia Aprea: è parsa un ventriloquo, per le maschere che le hanno cancellato le labbra), cerca a sua volta di consegnare, in eredità, alla figlia Miranda (Silvia Biancalana), alfabetizzata, in quel dorato e immaginifico domicilio coatto dell’isola dell’esilio, alle pratiche esistenziali, spesso sotto i consigli dittatoriali - sconfinando in quello che è stato uno dei più felici e indimenticabili doppiaggi di Eros Pagni: il sergente maggiore Hartman, in Full Metal Jacket - dell'amorevole, ma crudo, padre/padrone.
di Erika Giansanti
PRATO. La scena asciutta e colorata; scomponibile e mobile, perfetta per adattarsi ai continui, convulsi andirivieni di Antonio Rezza (non più solo in scena) e dei suoi gregari (Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo di Norscia) che si accorpano e disgregano come una dea Kalì dalle molte braccia, gambe, muscoli. E natiche. Voci che si intersecano pur restando parallele, senza mai ascoltarsi, senza rispondersi; i parametri della comunicazione perduti nella frenesia di un’esistenza assurda in cui tutto è già stato esperito, spiegato, dimostrato e ascoltato. Fino a decomporsi, come l’habitat - chiama così le sue scene Flavia Mastrella -: uno spazio apparentemente bidimensionale, eppure versatile e pronto a disgregarsi, nello scorrere serrato di domande con ormai troppe risposte che sembrano annullarsi l’un l’altra. C’è il tutto e il nulla in Anelante, in questa messinscena andata in onda sul palco del Fabbricone, di Prato, subito dopo l’altra rappresentazione RezzaMastrella targata 7-14-21-28. E si ride. Del tutto e del nulla.
di Stefania Sinisi
LASTRA A SIGNA (FI). Proprio un anno fa, Mario Perrotta fu una sorprendente illuminazione, proprio in questo stesso teatro, il Teatro delle Arti, sul palco nero, obliquo, con tre statue di ferro alle spalle. Mostrò, con una semplicità spiazzante - citando un altro aspetto fondamentale del teatro: il segreto della luce, che sta nei bui che riesce a creare - portando in scena Nel nome del padre, tre padri appunto, ma anche tre figli e tre madri, illuminati nella penombra; tre famiglie comuni dove ognuno si contrappone a se stesso a specchio, svelandosi a poco a poco nella propria identità, riflettendo sensibilmente le nostre fragilità, di padri, madri, figli. Figli estranei e indecifrabili, apparentemente assenti che compaiono energicamente solo grazie a un gioco sottilissimo fatto di parole, di concetti, invisibili fisicamente, ma potentemente presenti e problematicamente risolutori, ignari guaritori di drammi irrisolti e nascosti, vissuti prima da figli e poi da padri.
PRATO. Senza conoscerli, si è autorizzati a pensare che la coppia Antonio Rezza e Flavia Mastrella sia un sodalizio di ultima cerchia urbana partorito, nato e diventato adulto all’interno di una casa di cura, subito dopo l’abolizione dei manicomi. La stessa impressione, del resto, è stata avvertita negli anni ’70, quando alla radio imperversava Alto gradimento, con la coppia Arbore/Boncompagni che poteva avvalersi di uno stuolo di magnifici dilettanti capitanati dal duo Marenco/Bracardi. La storia dei nobili disallineati della controinformazione che tanto bene fa ai regimi che così possono pavoneggiare la loro democrazia, non finisce certo qui; passa alla televisione, poi al cinema, per poi tornare ancora sul piccolo schermo e approdare in teatro. Ma la blasfemia dislessica, i raptus deontologici, la ginnica claudicante e una ratio altamente psicotica fanno di Antonio Rezza e Flavia Mastrella un connubio senza precedenti (eccezion fatta che per Corrado Guzzanti e Ciprì e Maresco, altri pericolosissimi portatori di follia) e probabilmente senza futuro, soprattutto in considerazione del fatto che le urla distoniche, non contemplate dal dolore e dalla gioia,
FIRENZE. L’immagine che un po’ tutti ci portiamo dietro di Winston Churchill è quella che lo raffigura, su ogni libro di Storia, imponente e austero, con il suo inseparabile sigaro tra le labbra, discernere di sangue e sudore con i suoi colleghi, gente del calibro di Stalin e Roosevelt, tanto per intenderci. La Storia lo ha già battezzato ed eternizzato come uno dei più lucidi statisti della civiltà, uno di quelli che, da solo, riuscì in qualche modo ad arginare il fenomeno nazista e circoscriverlo, salvo demenziali e indecodificabili rigurgiti che sembra vogliano riesumarlo, alla sola Germania. Giuseppe Battiston, vistosamente alleggeritosi, ma senza perdere la sua naturale imponenza, ne offre una visualizzazione che non si allinea all’inavvicinabile austerità dell’uomo della democrazia: qui, sul palco del Teatro La Pergola di Firenze (dove resterà fino a domenica 2 febbraio), grazie alla produzione Nuovo Teatro di Marco Balsamo, la regista Paola Rota, che ha spulciato il testo di Carlo Giulio Gabardini, Churchill, il vizio della democrazia, regala, seppur in molto molto scarno, inglese, è proprio il caso di dire, un uomo alle soglie della morte, alle prese con i suoi obiettivi e giustificati deliri di onnipotenza,
di Francesca Infante
PISTOIA. È tutto spoglio, tanto che di lato si vedono le corde del palco, che sempre vengono nascoste, ma qui devono essere viste. Cinque sedie, messe in cerchio, c’è solo quello. E cinque danzatori. Quando la finta perfezione non è parte della scena, resta da guardare ciò che di solito viene nascosto: i difetti. Ed è bellissimo. Questo è Another Round For Five, la nuova creazione di Cristiana Morganti, andato in scena (ad evento unico) sul palco del Teatro Manzoni di Pistoia. I protagonisti dello spettacolo si trovano in un luogo non ben definito, forse un club, un circolo, sicuramente un luogo a cui si appartiene o da cui si viene esclusi e in cui si consumano rituali, esibizioni televisive, gare, terapie di gruppo, scontri, discussioni e confessioni. Si riuniscono spesso in cerchio, come attirati da un’illusione di armonia difficile da mantenere. Su una scena quasi completamente vuota – appaiono rapidamente solo alcuni oggetti - prende forma una dimensione ironica e claustrofobica insieme, in cui il tempo è scandito da flashback e anticipazioni, in un gioco dove realtà e finzione, conscio e inconscio, equilibrio e caos si confondono.
FIRENZE. Per questo Camerini, l’ultima - in ordine di tempo - idea scenica di Alessandro Riccio, esuberante attore/autore fiorentino, il Teatro di Rifredi, che lo ospita fino a domenica prossima, 2 febbraio, può già vantare il tutto esaurito. Questo ci consola: per lui e la sua compagnia, per il Teatro di Rifredi, che continua a navigare, con dignità e dolcezza, contromano (senza abbonamenti), registrando, in compenso e in parecchie circostanze, rassicuranti sold out e anche per noi, che non siamo rimasti abbagliati. L’idea della rappresentazione, seppur apparentemente orfana di qualsiasi contenuto che possa far riflettere, non è male; dietro le quinte, infatti, non è peregrino immaginare e constatare, da cimici immaginarie nelle quali ci possiamo immedesimare, che i rapporti idilliaci di scena non siano affatto genuini e che dietro i sorrisi a trentadue denti con i quali i cast si presentano e congedano dal pubblico, spesso tenendosi per mano e fingendo di voler declinare il centro del palco al collega, nascondano in realtà parecchi dissapori, invidie, ruggini incancrenite, incoffesabili frustrazioni, fallimenti e che nei Camerini di tutti i teatri di tutto il mondo succeda e possa succedere quello che Alessandro Riccio ha costruito attorno alla sua compagnia occasionale, composta da vecchi e nuovi amici di scena.
FIRENZE. Il pubblico continuava ad applaudire; loro, gongolavano, nel senso più poetico e disarmante che possiate immaginare. Noi, piangevamo, fortissimo, perché non riuscivamo a calibrare le nostre sensazioni, perché saremmo voluti salire sul palco e abbracciarli uno a uno, anzi, tutti insieme, casomai rotolandoci per terra, con il rischio di farci anche male. Ne sarebbe valsa la pena. A loro, scommettiamo, non sarebbe dispiaciuto, perché è quello che stanno cercando di fare: tornare a far parte della grande mela, ma solo dopo essere stati all’inferno, o esserci addirittura nati. Sì, perché gli attori che hanno dato vita al Teatro Cantiere Florida, a Firenze, a Sacro Quotidiano, appartengono al cosmo delle marginalità (salute mentale, dipendenze, migrazione) mostruosamente e pericolosamente avvicinato a quello degli altri grazie a un gruppo di educatori (Luisa Agostini, Barbara Bacci, Angela Bargigli, Stefania Bessi, Tiziana Brezzi, Bartolomeo Gentile, Cristina Guerrieri, Barbara Gufoni, Simona Moretti, Cristina Ricci, Mary Spano, Elena Tafi e Marco Vincenti) che da oltre un lustro hanno dato vita al Teatro come Differenza, progetto di lillipuziano mastodonticismo che crea resurrezione spirituale, umana e dunque storica e civile.
PISTOIA. L’augurio è che, quanto prima, la Civiltà, la Società, la Storia, la Cultura tutta e anche il Teatro, naturalmente, di certe rappresentazioni non ne abbiano più alcun bisogno. E non perché Mine vaganti, che Ferzan Ozpetek ha traslato dal grande schermo al Teatro (il Manzoni di Pistoia, nell’occasione, con repliche fino a domenica 26 gennaio), prodotto e coprodotto dal Nuovo Teatro di Marco Balsamo e dalla Fondazione Teatro della Toscana, non sia un lavoro di preziosa e gradevolissima portata. Anzi. Spettacolo che scivola con estremo piacere fino alla fine, della quale sappiamo tutto tutti, visto e considerato che dieci anni fa, al cinema, fece, giustamente, incetta di premi e riconoscimenti, grazie anche a un cast meravigliosamente assortito, fino al punto che in più di una circostanza, ieri sera, si è avuta l’impressione di vedere, sul palco, Ilaria Occhini e Ennio Fantastichini, madre e figlio, perfettamente interpretati da Caterina Vertova e Francesco Pannofino, bravi e perfettamente sintonizzati con il resto della spumeggiante compagnia, che vede Paola Minaccioni nel ruolo della signora Cantone, Arturo Muselli e Giorgio Marchesi in quelli di Tommaso e Antonio, i figli omosessuali, con Mimma Lovoi che è la cameriera Teresa, Sarah Falanga la zia Luciana, Francesco Maggi e Eduardo Purgatori che sono Andrea e Davide, gli amici romani omosessualissimi di Tommaso, Luca Pantini, che è Marco, il suo compagno omosessuale con deontologico ritegno e Roberta Astuti, la giovane nuova socia della Ditta Cantone.
FIRENZE. Conosce perfettamente il teatro, Valerio Binasco, per non parlare della Commedia; dell’Arte in particolar modo, tanto da provare e riuscire a trasformarla in quella italiana, che ci appartiene così tanto chimicamente e culturalmente, prima che geograficamente. E poi, i suoi polli, soprattutto. Per questo ad Arlecchino servitore di due padroni, monumentale opera goldoniana alla Pergola di Firenze fino a domenica 26 gennaio, occorreva un battitore libero poco sgargiante e ancor meno cromatizzato; grigio, oseremmo dire, tragicomico e pretesto, ma non fulcro, dell’intera messinscena. Allora, eccolo il soggetto che sposa esemplarmente la causa: Natalino Balasso, un disperato doppiogiochista, per necessità, non per virtù biochimica, che non saltella sinuosamente sul palco, ma si muove goffamente, che non ha maschere, ma solo la sua faccia, che è molto di più e che non attira a sé la Commedia, ma la ripartisce, in parti uguali, con tutti i comprimari. Che sono giovani, bravi, simpatici e armonici, questi ultimi. Certo, ci vuole una vecchia volpe, a coordinare la scena;
di Francesca Infante
PISTOIA. Lui uccide il suo canarino, lei usa il sangue per masturbarlo. Una scena forte, potente, rivoluzionaria ma troppo breve, che lascia intravedere, con amarezza, il livello disturbante che avrebbe potuto avere After Miss Julie. È questa la rappresentazione andata in scena sul palco del Teatro Manzoni, dramma tratto dall'opera di Patrick Maber, riscrittura del testo La signorina Giulia di August Strindberg, con la regia di Giampiero Solari e con Gabriella Pession, Lino Guanciale e Roberta Lidia De Stefano. Il luogo dove accade la vicenda è la cucina della villa di una famiglia dell’alta società inglese, dove Miss Julie, figlia dei proprietari, gioca a trasgredire socialmente e sessualmente. La vediamo che irrompe continuamente nella cucina provocando colpi di scena e finte casualità per sedurre John, autista e maggiordomo di famiglia, facendolo in maniera spudorata di fronte a Christine, cuoca e promessa sposa di quest’ultimo. La serata diventa una macabra celebrazione, oppure una rimozione ironica del successo del Partito Laburista; infatti, tra i valori espressi dallo stesso partito, ci sono l’emancipazione femminile e la liberazione sessuale. È la stessa Miss Julie che vuole fuggire dalla sua vita di agio e ipocrisie; in realtà, lei è la vittima dell’eredità della sua anacronistica posizione, una outsider della nuova società inglese appena proclamata con la vittoria dei Laburisti.
di Stefania Sinisi
FIRENZE. Ci confida nella penombra del palcoscenico il suo amore e la sua passione per il cabaret, per l’arte comica in genere e per il camuffamento, in una narrazione sincera, accompagnata dalla fisarmonica di Marcello Fiorini. Dario Ballantini al Teatro Rifredi di Firenze (si replica fino a domenica 19 gennaio) porta in scena Ballantini & Petrolini (regia Massimo Licinio), 7 famosi personaggi del grande Ettore Petrolini, inaugurando così questa tappa fiorentina. Accavalla e intreccia le narrazioni degli albori della vita artistica di Petrolini ai suoi ricordi d’infanzia, mescolandoli, mescolandosi ai personaggi che interpreta, ripercorrendo con il pubblico un vero viaggio nella storia del teatro italiano. Ettore Petrolini è considerato, a ragione, il precursore di un genere che ha rivoluzionato l’intero panorama artistico del ‘900, così detto demenziale, che ha generato una corrente ancora fortunatamente viva. Le intenzioni dell’onemanshow (fama nazionale grazie ai suoi travestimenti di Striscia la notizia, sull’ammiraglia della Fininvest, Canale 5) sono ammirevoli; ci offre in dono Petrolini imitandolo accuratamente, lo interpreta sostenendo da solo un intero repertorio, ma dov’è la sua interpretazione personale, quella vena caratteriale che distingue un attore da un semplice imitatore?
PRATO. Diffidate, a teatro, dello spettacolo che sta per iniziare quando dalla platea, alla prima innocentissima battuta, sentite sgorgare qualche risata fuori da ogni ragionevole presunta ilarità. L’ultimo esempio, ultimo solo in ordine di tempo, è arrivato ieri, al Metastasio di Prato (si replica fino a domenica 19 gennaio), dove Massimo Grigò, Alessia Innocenti, Annibale Pavone, Tommaso Massimo Rotella e Tommaso Taddei hanno riprodotto Chi ruba un piede è fortunato in amore, per la regia di due sacchi di sabbia, Giulia Gallo e Giovanni Guerrieri, commedia cara all’avanspettacolo di Dario Fo - quando aveva il viso sottile e i capelli neri; quando aveva i capelli -, prima che il giullare si offrisse, anima e corpo, all’impegno militante. Al di là di considerazioni profondamente personali e spirituali sullo stato di forma di alcuni dei protagonisti, che ci teniamo dentro perché mal supportate da un’oggettiva e collettiva e dunque corretta considerazione attoriale, resta insindacabile il fatto che di certe pantomime teatrali non se ne senta affatto la nostalgia, nonostante qualcuno, in platea, abbia salutato lo spettacolo con una risata come se siul palco ci fossero le comiche con Stanlio e Ollio.
FIRENZE. Dategli spazio, ma non dategli ordini; dategli tempo, ma non ditegli quanto ci dovrà mettere; concedetegli musica e colori, ma non ordinategli i canti e i balli; dategli i teatri, ma non chiedetegli cosa vorrà rappresentare. Filippo Timi è questo: Skianto, ma anche tanto altro, senza capo, né coda; prendere o lasciare. Noi ce lo prendiamo; ce lo siamo presi e ce lo continueremo a prendere, così, sempre, perché il nostro bisogno di andare a teatro coincide, letteralmente, con la sua necessità di farlo. Con lui succede esattamente quello che desideriamo accada: tutto, nulla, da dentro, dalle viscere, da una scatola, probabilmente vuota, per uscire fuori, esplodendo, come un carico spropositato di dinamite fatto brillare al passaggio di una lunga carovana, sulla quale è trascinato il bestiario più rappresentativo dell’umanità. In particolare gli ultimi, disabili compresi, anzi; soprattutto i disabili. Come la cugina, sua cugina, cerebrolesa, alla quale ha voluto dare per poco più di un’ora la possibilità immaginifica, ma necessaria, di parlare.
FIRENZE. Senza leggere il foglio di sala; senza conoscere i rispettivi background di ognuno dei protagonisti in scena. E senza sapere da dove venga Serena Malacco, giunco elegante e delicatissimo, che si è transalpinizzata in tutto e per tutto e che ha scritto e portato in scena, al Cantiere Florida di Firenze, All around me, triplice partitura danzante che, ignavi di cosa volesse esprimere, si riassume in un Eden biblicamente scorretto, ma storicamente inappuntabile, dove le donne (Ana Luisa Novais e Alice Raffaelli) giocano e si desiderano e dove, un attimo dopo, stessa sorte ludica ed erotica, tocca anche agli uomini (Stefano Beltrame e Luis-Clément Da Costa). I contatti e gli appostamenti sono tanto carnali quanto ludici, peccaminosi e adolescenziali, infantili, che risentono e denunciano l’insopprimibile desiderio chimico/umano che avviluppa le sorti di ogni singolo essere vivente, appartenente a qualsiasi specie. Sulle note dei Pink Floyd, su quelle dei Television, interpretate dalle chitarre di Roberto Dellera e Milo Scaglioni, che appartengono al quadro bucolico paradisiaco contemporaneo che si offre agli spettatori, vestiti tra folk e punk, su uno sfondo floreale che ricorda i meandri uditivi e auricolari, ma anche quelli vaginali, da dove nasce il mondo e tutte le sue sfumature pulsanti, che muovono le cose.
PRATO. Sì, è proprio così. La condividiamo totalmente la sottotraccia, o - come Lucia Calamaro stessa ha voluto specificare -, il titolo alternativo: nostalgia di casa. Perché esaurite le illusione e gli incantesimi, ad ognuno di noi resta solo quell’amore che si è stati capaci di costruire. E proteggere. E difendere; ed è l’unica divinità alla quale anche il più incallito laico può aggrapparsi, convincendosi dell’eternità. Certo, il nevrotico quartetto in scena (Alfredo Angelici, Cecilia Di Giuli, Simona Senzacqua e Francesco Spaziani) al Fabbricone di Prato (si replica fino a domenica prossima, 12 gennaio) offre a Nostalgia di Dio (figlio del Teatro Stabile dell’Umbria e del Metastasio pratese, in collaborazione con Dialoghi – Resistenze delle arti performative a Villa Manin 2018-19) quell’indispensabile tragicomico retrogusto caro alle pellicole di Woody Allen, più che alle scenografie di Samuel Beckett. Condimento indispensabile perché la trama della tela, che si affaccia agli spettatori da un campo da tennis, si concluda, amorevolmente, nella casa della coppia separata finita in dote alla consorte, ovviamente e dove i quattro amici saranno costretti a rimandare, a data da destinarsi, il pellegrinaggio condiviso solo alle prime luci dell’alba in sette chiese romane.
di Pierluigi Lazzaro
PISTOIA. Si apre il sipario del Teatro Manzoni di Pistoia e d’incanto ci troviamo, nella sera che precede l’Epifania, in una città coperta di neve, dove frettolosi passanti appaiono come ombre nella notte. Cambio di scena ed eccoci all’interno di una casa, la vigilia di Natale, con un enorme albero a stagliarsi sul fondo. Già dopo pochi attimi scompaiono pensieri e preoccupazioni, catapultati come siamo nel mondo magico e protetto della nostra infanzia. In un’atmosfera onirica ci si abbandona volentieri alle musiche di Ciaikovskij, dagli echi malinconicamente popolari, che vengono accompagnate magnificamente da coreografia e costumi sgargianti. Perfetta e rassicurante favola di Natale, tratta non direttamente dall’opera di Hoffmann Schiaccianoci e il re dei topi, ma dalla versione di Dumas padre nella quale gli aspetti più cupi si stemperano a creare un’atmosfera più giocosa. Il quadro iniziale del primo atto coglie la festa della vigilia di Natale presso la famiglia Silberhaus in cui il culmine si raggiunge all’arrivo del padrino dei due bambini, Fritz e Maria, con i suoi stravaganti doni. Tra questi, appunto, uno schiaccianoci a forma di ussaro, che affascina la piccola Maria.
CAMPI BISENZIO (FI). Certe volte, per trascorrere il letizia un ultimo dell’anno, non è necessario arrivare in posti esotici o cenare a lume di candela con chef stellati e camerieri impeccabili. Si può star bene, divertendosi, anche in compagnia di vecchi amici e nuovi conoscenti, in una trattoria alla buona, dove però, nonostante non ci siano piatti ricchissimi, si mangi bene e si beva anche del buon rosso. Camicia su misura, uno dei tanti spettacoli che ha lanciato, seppur non in orbita, ma nei backstage dei teatri della Toscana, sì, Andrea Bruni, è quello con il quale abbiamo aspettato, rilassati e divertiti, la mezzanotte del 31 dicembre 2019. Lo abbiamo fatto in un esaurito in ogni ordine di posti TeatroDante Carlo Monni, a Campi Bisenzio (si replica anche oggi, 1 gennaio, alle 18), con buona parte delle coppie indigene di mezza età al tepore della platea e molti cinesi, soprattutto giovanissimi, ormai perfettamente integrati nel tessuto connettivale della zona, fuori al freddo, preferendo i modesti e innocui fuochi d’artificio alle risate troppo distanti, forse, dalla loro ilarità.
di Francesca Infante
PISTOIA. Leggiamo da sempre di tragedie, epopee, epiche battaglie della letteratura greca e dei loro impavidi eroi. Ma conquistare Troia cos'è in confronto alla corsa alla cassa del supermercato che ha appena aperto? Il palco del Teatro Manzoni di Pistoia, ospita (si replica fino a domenica 29 dicembre, feriali ore 21, festivi ore 16) una tragicommedia cantata, che sembra un musical ma non lo è: Supermarket – A modern Musical Tragedy. Prodotto da Elsinor, scritto e diretto da Gipo Gurrado, è uno spettacolo fuori dal comune, pieno di situazioni bizzarre, di risate e di poesia. A tratti senza parole. Perché quello che succede dentro a un supermercato lascia proprio così. Supermarket è un 'non-musical' costruito con nove attori (Federica Bognetti, Livia Castiglioni, Francesco Errico, Andrea Lietti, Roberto Marinelli, Elena Scalet, Andrea Tibaldi, Cecilia Vecchio, Carlo Zerulo) e una partitura sonora di canzoni inedite, a cui si aggiungono un sound design costruito con suoni e rumori ripresi in un vero supermercato e una serie di annunci ad hoc con una drammaturgia originale.
di Luciano Uggè
GENOVA. La quarta edizione di Intransito, rassegna teatrale organizzata dal Comune di Genova in collaborazione con Teatro Akropolis, Associazione La Chascona e Officine Papage, si è conclusa sabato 14 dicembre: vincitore, Pan Domu Teatro con Assenza Sparsa. La prima Compagnia che seguiamo, venerdì 13, è Archipelagos Teatro che presenta lo spettacolo Aspide. Gomorra in Veneto - di Tommaso Fermariello, interpretato da Gioia D’Angelo e Martina Testa. Una ricostruzione giornalistica che utilizza, oltre alla documentazione processuale, il racconto della moglie di un imprenditore preso nelle maglie della camorra operante in Veneto. Un testo che riassume le tante difficoltà che ha incontrato la giustizia italiana nel perseguire i colpevoli di una serie di atti criminali (tra i quali pestaggi, sevizie, ricatti e usura) e nel rintracciare i legami che li collegavano al clan dei Casalesi. Un lavoro fortemente di denuncia anche nei confronti di quei politici che vorrebbero confinare la presenza delle mafie in situazioni e regioni specifiche, stentando a riconoscerne la capacità di penetrazione e, in alcuni casi, anche di fronte all’evidenza dei fenomeni che si registrano. Un testo, inoltre, che scava nel sistema di potere delle banche e accusa implicitamente uno Stato che nulla fa per evitare che aziende, anche sane, finiscano nelle mani degli usurai - in quanto non supportate, a livello finanziario, da quelle stesse banche che preferiscono giocare in borsa piuttosto che aiutare a mantenere un tessuto economico sano. A livello teatrale, una rappresentazione che necessita di maggiori approfondimenti drammaturgici e che, a momenti, sembra più la ripresa di un programma televisivo che una messinscena.
PRATO. È la piccola, grande tragedia, nella migliore delle ipotesi incruenta, che si consuma, in particolar modo in Italia, da qualche anno, da quando la globalizzazione, come la intende il capitalismo, non come la pensavamo noi, ha preso il sopravvento. A Borgoabbatuffoli, paesino dell’entroterra chiantigiano, la nascita di un supermercato stritola la concorrenza dei piccoli esercizi. In particolare quella di quei quattro negozi che si affacciano sul centro del paese: il bar, la sartoria, la macelleria e la libreria. E la giovane regista Fiammetta Perugi, guidata dal vecchio Massimiliano Civica, che si è a sua volta avvalso delle residenze artistiche di Castiglioncello Armunia/festival Inequilibrio, Sansepolcro CapoTrave/Kilowatt e grazie al circuito regionale Fondazione Toscana Spettacolo, ha scritto, con Marco Bartolini, questo lungometraggio teatrale, La piazza, sul palco del Magnolfi di Prato, in prima nazionale, fino a domenica prossima, 22 dicembre. I quattro bottegai se la passano maluccio da tempo, ormai e dopo la chiusura del quinto negozio, qualcuno, tra i sopravvissuti, inizia a domandarsi se valga o meno la pena insistere con quell’attività, anche se è frutto di un lavoro generazionale ereditato dai genitori e abbandonarla ha il sapore di un sacrilegio.
PRATO. La cosa più originale è la canzone che chiude la rappresentazione, con un Tiziano Ferro sontuoso. Il resto de Il gabbiano è tutto già visto, anche se il secondo atto (nel primo no, purtroppo) della giovane Giulia Mazzarino merita attenzione, non solo per le lacrime versate, vere, sofferte, di totale immedesimazione, scorte agli applausi finali, con il rigo del rimmel lungo la guancia. Licia Lanera, regista e protagonista di questa trasposizione teatrale cechoviana (al Metastasio di Prato, che coproduce lo spettacolo; ultima replica oggi pomeriggio, domenica 15 dicembre), con la Medusa a tinta unita tatuata su una spalla e vari scarabocchi multicolor sull’avambraccio dell’altro braccio, gioca sul sicuro e imbastisce una rilettura che non scontenta nessuno; con Anton Cechov, del resto, succede così, in particolar modo ne Il gabbiano, con il quale tutti vogliono misurarsi, anche se poi nessuno osa scarnificarlo; quest’ultima operazione richiede tempo e lavoro, meglio accontentarsi di piccoli accorgimenti scenografici, a tutto il resto c’ha già pensato lui, il drammaturgo russo, che aveva già intravisto la decadenza umana, non solo quella che popola la provincia.
di Stefania Sinisi
LASTRA A SIGNA (FI). Simpaticamente incuriositi dal titolo, ci sediamo in platea al Teatro delle Arti, a Lastra a Signa, per assistere allo spettacolo del Trio Trioche, che solo a pronunciarlo ci riempie la bocca della sua abbondante strabordanza; ci interroghiamo infatti sulla sua origine, ma la provenienza - ci spiega la stessa Silvia Laniado, una del Trio, con Franca Pampaloni e Nicanor Cancellieri, più tardi -, è nata goliardicamente in un’allegra serata del 2013 trascorsa insieme alla regista dello spettacolo, Rita Pelusio, nella quale bevendo un ottimo Borgogna e trastullandoci alla ricerca del loro nome, venne fuori spontaneamente dando un po’ l’idea del tri e scherzando sull’assonanza con le oche e le brioche in un francese italianizzato - conferma letteralmente Franca Pampaloni, et voilà, nasce Trioche. Il suono francese, però, ci evoca anche suggestioni storiche sul teatro di varietà, o, più comunemente, variété nella sua declinazione francese, un genere di spettacolo teatrale leggero come imitazione del Cafe-concert. Si trattava di un genere di spettacolo nel quale si eseguivano numeri di arte varia tra cui operette, giochi di prestigio, balletti, canzoni.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Danza, spazio, parola, suono. Elementi per un fondale in divenire, moltiplicazione di gesti, sinuosità di corpi e il respiro teneramente rilassato del poeta. Roberto Carifi - caro a noi che lo abbiamo letto, ascoltato, atteso, e che da anni lo sappiamo prezioso, sempre più unico - è qui con noi. Si può essere poeta del corpo? Di sicuro se ne può moltiplicare l'energia nell'incontro di venti corpi, venti partecipanti al seminario durato una settimana, a Pistoia, seminario sbocciato in questa commovente performance, Mother – Stanze poetiche. Virgilio Sieni (che si è avvalso della collaborazione artistica di Giulia Mureddu e Carlotta Bruni e dell’Atp per la produzione), protagonista della danza contemporanea dai primi anni ’80 e dello studio del movimento, legato all'organismo, alla natura e agli equilibri, ha alle spalle numerosissimi spettacoli e laboratori in tutto il mondo, collaborazioni con musicisti del calibro di Ennio Morricone, Steve Lacy, Alexander Balanescu. Qui a Pistoia, in un palcoscenico circondato dalle sedie occupate da un ristretto numero di spettatori, è riuscito a comparire, solo nel finale: appare sul filo bianco del risveglio dal sogno, dal momento ipnagogico.
di Raffaele Ferro
FIRENZE. Che s'ha da fa' pe campa’. Un inizio così di sicuro farebbe specie, o quantomeno, confonderebbe le idee per chi, non conoscendo la nostra testata, sì aspettasse una recensione positiva. Invece qui si dice pane al pane e vino al vino! Caserecci ma non troppo, saltimbanchi simil-animatori da villaggio turistico, frequentatori di italianissimo stampo, di bar o più semplicemente comici da strapazzo, i cinque attori di Manicomic (diretto da Gioele Dix, al Teatro di Rifredi, a Firenze) hanno stravolto e fatto scompisciare il pubblico per quasi due ore. Ma in verità sono musicisti eccezionali che, a nostro avviso scelgono, anzi, data la situazione italiana in ambito musicale, sì adattano a fare i comici! Ecco, ci siamo sfogati: Raffaello Tullo, voce; percussioni, Renato Ciardo; batteria, Nicolò Pantaleo; sax, Vittorio Bruno; contrabbasso, Francesco Pagliarulo sono dei veri maestri del ritmo, del suono e dell'incantamento, da prestigiatori, si potrebbe dire, della musica e della sua magia.
PISTOIA. Ormai è conclamato: con William Shakespeare si può fare di tutto, specialmente ne La tempesta, il suo ultimo manifesto, le sue volontà. Il Teatro del Carretto, al Funaro di Pistoia, in prima regionale, ne ha offerto una versione particolarmente brillante, con un Prospero biblico, particolarmente accigliato (il fisico imponente di Teodoro Giuliani ne ha facilitato la proiezione), presagio di disastri, padre/padrone affettivo/compulsivo che non riesce a sciogliersi nemmeno al cospetto della straordinaria Elsa Bossi, la figlia Miranda, che è poi anche Ariel e vocalist impeccabile, soprattutto, ardentemente desiderosa di trovare il proprio principe azzurro, che è lì a due passi (Fabio Pappacena), anche lui, per esigenze attoriali, uno e trino, un po’ Ferdinando, un po’ Calibano e puntuale apprezzabile diaframma. Al posto dell’acqua, sull’isola che non c’è o che comunque la si può inventare o immaginare, c’è un mare di libri, che solo Prospero ha diritto di calpestare con stivali texani; gli altri due della Compagnia del Carretto invece sono provvidenzialmente scalzi. Certo, devono muoversi più agilmente, migrare e trasmigrare in altri corpi e suggestioni e poi, devono cantare e in virtù delle ultime disposizioni teatrali, bisogna stare a piedi nudi.
di Francesca Infante
PISTOIA. Quando la scena cambia, parte una nostalgica dissolvenza in nero che riporta alla mente quel cinema, ormai perduto, degli anni '40. E per un secondo ti senti a metà, tra il cinema e il teatro, un luogo idilliaco. M'hanno detto di prendere un tram che si chiama Desiderio, poi un altro che si chiama Cimitero, e alla terza fermata scendere ai Campi Elisi! È andato in scena, ieri sera, al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica stasera e domani pomeriggio, domenica 8 dicembre) Un tram che si chiama desiderio, famosissimo e controverso testo di Tennessee Williams. La storia è ambientata nella New Orleans degli anni '40, e narra la storia di Blanche (Mariangela D'Abbraccio), una donna alcolizzata, malata di nervi e vedova di un marito omosessuale, che dopo il pignoramento della sua casa si trasferisce dalla sorella Stella e dal marito di lei, Stanley (interpretato nel 1951 dall'immenso Marlon Brando, mentre qui da Daniele Pecci). Tra Blanche e Stanley si instaurerà da subito un violento conflitto che porterà la donna alla pazzia e lui a un gesto estremo.
FIRENZE. Non basta conoscere William Shakespeare, le sue opere, la loro cronologia e sapere che La tempesta sia la sua fiaba del congedo dalla storia e l’automatica immissione nella leggenda. Nella Tempesta occorre cascarci dentro, perdercisi e poi risalire a pelo d’acqua e ripreso l’ossigeno dispensato nella lunga apnea, provare a capire. E anche allora, non è detto che tutto si disveli. Dopo aver visto la trasposizione teatrale alla Pergola, a Firenze (si replica stasera, domani e domenica 8 dicembre), i collegamenti tra la vita e la morte, il passato e il futuro, la sopravvivenza storica, redentiva, aumentano, paradossalmente, l’ingarbugliamento morale tessuto dalle semirette tracciate dal drammaturgo inglese, che si fa Prospero (un magistrale Renato Carpentieri) e ordisce, su quest’isola sperduta del Mediterraneo (sempre di moda, anche prima dell’esodo biblico in atto), la Tempesta chiarificatrice, quella che consegnerà a Miranda, la figlia (Giulia Andò), che aspetta con lo spiritello Ariel e lo schiavo Calibano (rispettivamente Filippo Luna e Vincenzo Pirrotta) le chiavi del futuro, costellato dall’amore, chimico e immediato,